Mi sembra impossibile che in tutta la storia della filosofia e della religione,
nessuno abbia mai visto come sia inevitabile giungere alla terza ipotesi, se si
segue fino alle sue più estreme conseguenze l'intuizione di essere "uno con Dio",
che non solo è esplicita nell'induismo e nei testi Vedici, ma riaffiora
anche nelle dottrine religiose occidentali, sia pure in forma di "esperienza mistica" individuale.
Averroè è stato il primo a formulare la tesi del "monopsichismo", che distingue
tra "anima individuale", che è mortale insieme al corpo, e "intelletto materiale",
che è immortale, unico e si identifica con la divinità; se non che, non deduce da
questo la fondamentale identità di tutti gli uomini (e di tutti i viventi). Se partiamo dalla terza ipotesi, secondo la quale l'"io" è un ente unico e assoluto,
si arriva direttamente alla conclusione che, se Dio esiste, deve essere sempre un'altra forma di esperienza
di quello stesso "io", che è anche il nostro "io". Il mio punto di partenza
è quello di un ateo non-mistico; però vorrei convincere anche i credenti
che la "rivoluzione copernicana" di considerare unico il nostro "io" condiviso,
è di tale portata che il poter sperimentare, tra le altre vite, anche una superiore
"esperienza di essere Dio", non è affatto necessaria per stabilire i principi etici che dovrebbero guidarci.
Una delle metafore più diffuse e condivise sull'idea di Dio è quella di considerarlo
come un mare, da cui per evaporazione si formano le nubi, che poi si condensano
in pioggia e quindi, attraverso percorsi più o meno tortuosi, ritornano a far parte dell'unico mare. Così, si pensa che in
qualche modo la nostra individualità di singola "goccia" possa dissolversi nella
"individualità oceanica" di Dio, verso la quale tutti convergiamo, e dalla quale
ci siamo distaccati come parti che hanno acquisito una momentanea individualità
separata. Alcuni pensano che questo ciclo possa continuare indefinitamente, e che
si possa uscirne solo con una condotta di vita impeccabile o ascetica. Il problema
che nessuno si pone, e che eppure ha una stringenza matematica, è che se io convergo
verso l'anima di Dio, e tu convergi verso l'anima di Dio, non ci troveremo là come
due escursionisti che si incontrano in cima ad una montagna: saremo piuttosto come una persona
che guarisce da un'amnesia e improvvisamente si ricorda di avere fatto esperienza
non solo della "sua" vita, ma anche di tutte le altre. La terza ipotesi
è il necessario corollario che dovrebbe essere immediatamente dedotto dall'idea
di essere tutti "parte di uno stesso Dio". Se abbiamo tre persone A, B, e C, che si immedesimano
con il Dio D, allora avremo A=D, B=D e C=D. Ma da ciò si deve anche dedurre che
A=B=C. Una volta raggiunta questa illuminazione, potremmo accorgerci
che il termine D non è più necessario, e potremmo semplificare le nostre formule
eliminandolo del tutto, come a volte si usano i numeri complessi nei passaggi di un calcolo per trovare tutte
le soluzioni reali di un'equazione.
Così, non è possibile illuderci che una vita di ascesi potrebbe risparmiarci dalle
future reincarnazioni, illudendoci con ciò di liberarci dalla "ingrata fatica" di
vivere, "convergendo in Dio" prima di tanti altri: una volta diventati "parte di
Dio", ci renderemmo immediatamente conto che anche tutti gli altri sono "parte di
Dio", cioè dell'"io cosmico" che saremo diventati, esattamente quanto lo era quell'"io
individuale" che eravamo illusi di essere. In altre parole: se io sono un "sogno
di Dio", è inutile sperare che, svegliandomi, possa ritrovare una quiete che non
sia solo momentanea; mi accorgerei
- o mi ricorderei - di essere lo stesso Dio che sogna anche le vite di tutti gli altri. Altrimenti,
gli altri, chi li sta sognando? Questa idea, che non esista una "via di fuga" che
ci garantisca una "perenne vacanza" lasciando il mondo e i suoi problemi a tutti
gli altri, è molto forte e soprattutto molto utile. L'ascesi può continuare ad avere
un suo valore come studio, comprensione di sé, raggiungimento di un equilibrio: ma questo
valore diventa effettivo unicamente quando essa è in grado di offrire a tutti gli
altri i suoi frutti pratici, sotto forma di condotta esemplare, o di contributo alla
pace e alla giustizia, di azioni più utili, di idee innovative, o semplicemente di consigli sensati.
L'idea di essere tutti espressione di uno stesso "io" condiviso, è così forte da
ridurre la discussione sull'esistenza di Dio alla possibilità di sperimentare un
eventuale "stato divino". Anche se non vogliamo rassegnarci a considerare l'idea
di Dio come una "ipotesi non necessaria", dobbiamo essere disposti a reinterpretarla
completamente, come abbiamo già dovuto fare con l'idea di anima. È chiaro che, come
le nostre vite si svolgono in tempi parzialmente sovrapposti, anche la "vita di
Dio" potrebbe essere contemporanea a tutte le altre, ma poiché il nostro "io" è
sempre lo stesso, sono necessari dei momenti di discontinuità per sperimentare ogni
singola vita "normale". La differenza tra
il nostro stato "umano" e quello "divino", dovrebbe risolversi in una differenza
di quantità di consapevolezza e di potere; potremmo farcene un buon esempio
pensando a come eravamo noi da bambini, o addirittura da neonati, rispetto a ciò
che siamo diventati da adulti: l'esperienza di uno "stato divino" potrebbe consistere
in una consapevolezza portata al massimo grado. Da questo punto di vista, possiamo
vedere come cada ogni necessità del ruolo di Dio "giudice" delle nostre azioni:
non c'è nessun peccatore, se non il nostro stesso "io", come non c'è nessuno che
abbia subito ingiustizie, se non, di nuovo, il nostro stesso unico "io". Da quel
superiore punto di vista, potremo forse provare dispiacere per non esserci comportati
sempre in modo giusto, e di esserci inflitti da soli delle sofferenze inutili, che
potevamo risparmiarci: ma non c'è assolutamente nessun altro da punire o da consolare.
Insieme alla consapevolezza, immaginiamo che possa crescere anche il nostro potere
di influenzare il mondo, anche se non è strettamente necessario che le due cose
crescano insieme. Questo comporta che sia possibile almeno una saltuaria influenza nelle
vicende umane. Ma chi non si lascia sedurre dal misticismo che vuole trovare per
forza in ogni evento negativo una chiave nascosta che possa ribaltarlo in evento
positivo, vede chiaramente che Dio, anche se esiste, non si manifesta negli eventi
quotidiani, dove governa invece il caso con le sue bizzarrie, l'uomo con le sue
imperfezioni e purtroppo anche le sue mostruosità. L'unica conclusione logica può
essere che Dio, anche se esiste, non può occuparsi delle nostre vicende, o che
comunque, nel migliore dei casi, non ha la possibilità di intervenire ogni volta
che il nostro comune senso di giustizia lo riterrebbe irrinunciabile. Dio, se c'è,
non risponde a tutte le chiamate, e i cumuli di vittime innocenti che la storia
umana continua a seminare, testimoniano questa ingiustizia con una forza che i saltuari
casi di "miracolati" rendono solo più evidente.
Queste sono argomentazioni storiche degli atei contro i credenti, ma la terza ipotesi
permette di aggiungere un'altra considerazione: poiché, se Dio esiste, dovremmo
considerarci tutti come incarnazioni più o meno "illuminate" dello stesso Dio, non
possiamo pensare di "essere qui" per superare una prova, e che saremo giudicati
in base al suo esito. Se Dio - cioè noi stessi nel nostro stato divino - avesse
il potere di influenzare il mondo anche senza doversi incarnare in ognuno di noi,
non avrebbe veramente alcun motivo di provare questa esperienza di consapevolezza
limitata e di capacità limitate; o almeno, dimostrerebbe più attenzione per evitare
che durante queste esperienze possa essere generato del dolore non necessario, che
alla fine è sempre lui a dover sopportare. In conclusione, la mia opinione è che,
se esiste un'esperienza di "vita divina", neanche essa può derogare alle leggi
fisiche che tengono insieme il nostro universo; e se la sua influenza può manifestarsi,
deve necessariamente farlo entro dei limiti che non permettano un riscontro statistico.
Questo significa che la sua influenza non può essere rilevata, e pensare che ci
sia o no, diventa una questione di gusti personali.
È possibile immaginare una scappatoia pensando che, durante l'esperienza di "vita
divina", si possa influenzare il pensiero e la volontà degli uomini che sono disposti
ad ascoltare la loro voce interiore. Questo permette di salvare le leggi della fisica,
in quanto l'influenza si realizzerebbe allo stesso livello in cui si manifesta la
nostra volontà cosciente: infatti, se essa non è solo un'illusione, deve poter sfruttare
qualche meccanismo di indeterminazione per potersi esprimere e modificare in modo
effettivo il corso della realtà, come suggeriscono molti autorevoli studiosi della
mente. Ma anche se supponiamo che la "mente di Dio" possa interferire con la nostra in
questo modo, poiché per la terza ipotesi si tratta sempre dello stesso "io", alla
fine non facciamo altro che riaffermare, in una diversa forma, il concetto già noto
e generalmente condiviso che la nostra mente abbia molte più risorse di quanto noi
stessi siamo consapevoli. Tutto si risolve di nuovo in una questione di preferenza
stilistica, ed il problema torna a sparire nel limbo di quelli che ho già in precedenza
definito come "problemi improponibili".
Potremmo riservare a questa "esistenza di tipo divino", il ruolo di "garante della
consistenza del mondo" che fa da scenario comune a tutte le singole esistenze individuali,
come del resto fece anche Cartesio; come abbiamo discusso in precedenza, un'interpretazione
di questo tipo potrebbe permettere di superare il dualismo tra l'"io" e il "mondo
esterno". Tuttavia, ciò non implica necessariamente che un tale tipo di esistenza
possa ammettere una consapevolezza o la manifestazione di una propria "volontà".
Dal mio punto di vista, la possibilità di
sperimentare uno stato di "consapevolezza divina" è irrilevante, e serve solo a
illuderci che, se abbiamo delle buone ragioni, in qualche modo potremmo essere favoriti
"perché lo meritiamo". Sono disposto a lasciare a chi ne ha bisogno la speranza
in questa possibilità: io stesso, quando
sono in una situazione in cui posso solo sperare e attendere, mi ritrovo ad affidarmi
ad essa; ma la mia convinzione personale è che, con l'ispirazione di Dio o senza,
il compito di creare qui sulla Terra un mondo migliore sia affidato unicamente alle
nostre capacità.
Continua sulla prossima pagina: "Conclusioni".