C'è una contraddizione fondamentale insita nella nostra esistenza, ma che ormai
siamo
abituati ad accettare come un dato di fatto imprescindibile, l'abbiamo rimossa e viviamo senza pensarci, in una
specie di indolente agnosticismo che si scuote soltanto in occasione di quegli eventi
che, nel bene o nel male, sconvolgono la nostra vita. Essa consiste nella constatazione che, da una parte,
la nostra esistenza individuale non è che un effimero evento
contingente prodotto in un mondo fisico che si modifica continuamente, e che sarebbe esistito anche senza la nostra presenza;
e dall'altra, che ognuno di noi,
dal suo particolare punto di vista, ha il diritto di considerare la sua stessa
esistenza necessaria quanto l'esistenza di tutto il mondo esterno. Se pensiamo che la nostra vita sia frutto di una serie di eventi casuali, su cui non
potevamo avere alcun controllo, allora dobbiamo concludere che essa rappresenta
una sola possibilità in confronto a un numero di alternative praticamente
infinito.
Siamo costretti a pensare di avere vinto una specie di lotteria cosmica,
per ottenere questa sia pure effimera vittoria sull'altrimenti eterna condizione
di inesistenza;
ma nel nostro intimo, una parte di noi resta convinta che "il
mondo non poteva veramente esistere senza che io fossi qui a sperimentarlo". Questo
problema viene tradizionalmente risolto (o per meglio dire "eluso") con diverse argomentazioni,
in base alle distinzioni che ho introdotto tra le tre ipotesi, ma
solo la terza ipotesi riesce a darne una soluzione definitiva.
La prima ipotesi considera che la vita che attualmente sperimentiamo sia la nostra
unica vita, o almeno la nostra unica vita "terrena". In questo caso occorre fare
una distinzione tra versione atea e versione religiosa: se infatti crediamo in Dio,
possiamo pensare di rappresentare l'espressione di una volontà di Dio, ma altrimenti
possiamo solo pensare di essere "nati per caso"; anche volendo ritenere illusoria l'indeterminazione
che sembra regnare nel mondo materiale (e che però è ormai accettata dalla quasi totalità
dei fisici teorici), dal nostro punto di vista soggettivo resterebbe comunque un inspiegabile
colpo di fortuna il fatto di rappresentare proprio una delle esistenze "previste" da questa
ipotetica predeterminazione. In un modo o nell'altro, dobbiamo ammettere di avere
avuto fortuna (almeno, se pensiamo che vivere sia una fortuna...). L'unica, provvisoria
spiegazione che può rendere ragione di questa "fortuna" è che, anche se potevamo
essere frutto di una sola "combinazione fortunata", nell'eterno evolversi del mondo,
"presto o tardi" anche la nostra combinazione doveva saltare fuori. Questa ipotesi
è sostenibile solo se si ammette l'esistenza di tanti universi, che nel
loro
complesso possano esaurire tutte le possibili "combinazioni di nascita" teoricamente
ammissibili. Se non che, ragionando con questi presupposti, dovremmo anche ammettere
che tutte le condizioni che "presto o tardi" possono verificarsi una volta, "un
po' meno presto", e "un po' più tardi" possono verificarsi di nuovo due, tre, infinite
volte. Allora dovremmo decidere se, ogni volta che si verificano le stesse condizioni,
preferiamo sostenere che sia sempre la stessa mente a manifestarsi, oppure no. Decidere
per il sì, equivale a pensare che ognuno di noi rinascerà infinite volte nelle stesse
condizioni di partenza; decidere per il no, lascia aperto il problema di che cosa
abbia potuto far sì che questa volta nascessi proprio io, al posto di uno dei miei infiniti cloni potenziali.
Ognuno dei due casi risulta problematico da sostenere.
Analizzando il caso dell'ipotesi "a singola vita" nella variante religiosa, in cui
si motiva la nostra esistenza come espressione del volere di Dio, non possiamo fare
a meno di notare che, dopotutto, essa può essere fatta risalire ad una variazione
del caso precedente: il fatto di essere un'anima "predestinata ad una vita" per
volere di Dio, si risolve comunque nella constatazione di aver avuto una gran fortuna
ad essere stati scelti per questo privilegio; e l'unica scappatoia a una tale "fortuna"
consiste di nuovo nel supporre che Dio, nella sua infinita preveggenza, abbia disposto
le cose perché, presto o tardi, "ognuno abbia la sua opportunità di vita". Da ciò
si deve concludere che queste opportunità devono essere infinite, e dunque che deve
essere infinita anche la dimensione o la durata del nostro mondo, o che, in alternativa,
devono essere stati creati infiniti mondi di dimensioni e di durata finite. Altrimenti,
dovremmo concludere che facciamo parte di una ristretta cerchia di "anime create"
che, anche se fossero numerosissime, dovrebbero essere necessariamente un numero
finito, e dunque dovrei ritenermi detentore di un privilegio assolutamente esclusivo. Anche in questo caso, è difficile spiegarsi il perché, dal momento che, prima di
essere creato non potevo già avere qualche merito che mi potesse distinguere dagli
altri potenziali "esseri creabili".
La seconda ipotesi prevede che ognuno di noi possa vivere più di una esperienza
di vita, e quindi che la sua individualità sia in grado di trasmigrare da un corpo
all'altro; non ci interessa in questo momento discutere se si possa sperimentare
uno stato di esistenza diverso tra una vita e la successiva, né la possibilità di
uscire dal ciclo potenzialmente infinito delle reincarnazioni successive; l'aspetto
caratteristico di questa seconda ipotesi è quello di svincolare la probabilità della
nostra esistenza individuale dalla probabilità delle condizioni contingenti in cui
essa si è verificata: se la mia anima non fosse nata nelle circostanze attuali,
avrebbe comunque avuto altre opportunità di nascere. Anche in questo caso, si presuppone
che la nostra anima sia già compresa in un insieme infinito di anime, che dopo la
prima nascita e poi una serie di esperienze
eventualmente suddivise in più vite successive, possono accedere ad uno stato di
esistenza che le affranca dalle ingrate fatiche di questo mondo terreno.
In ognuno di questi modelli, prima ancora di constatare la mia partecipazione all'insieme
delle forma di vita che hanno avuto il privilegio di vivere effettivamente, devo
sempre presumere di fare parte di una precedente categoria di "possibili sperimentatori" di vite terrene. Nella
versione atea della prima ipotesi, al posto delle anime devo presumere l'esistenza
di "menti che possono emergere e manifestarsi in un cervello fisico"; ed anche se
mi ostino a voler considerare i fenomeni mentali come un'illusione prodotta dal
funzionamento di un cervello fisico, sono sempre costretto a riconoscere l'esistenza
di un soggetto
che sperimenta questa illusione, quell’”io” che ognuno
sente come proprio, e che non può
essere negato in virtù dello stessa certezza esistenziale che affermava Cartesio:
se dubito, penso; e se penso, allora esisto. Se non vogliamo accettare
la terza ipotesi, dobbiamo ammettere l'esistenza di un insieme
potenzialmente infinito di "possibili sperimentatori" di vite terrene, comunque
si vogliano chiamare: anime, menti o "soggetti di un'illusione", i cui elementi devono accettare il loro
destino di nascere oppure no in base ad eventi di cui non hanno alcun controllo.
Perché mi sento a disagio a considerare questo insieme di cui dovrei evidentemente
fare parte? Perché mi sembra che anche pensando che i suoi elementi siano infiniti,
devo accettare come un privilegio "trascendentale" il fatto di essere uno di essi,
e il fatto che evidentemente esso non sarebbe risultato esaustivo senza la mia presenza.
Non basta constatare che, poiché questo insieme è infinito, allora anch'io devo
farne parte; secondo questo ragionamento, io dovrei fare necessariamente parte di
qualsiasi insieme con infiniti elementi, il che è un'assurdità.
Mi suscita
un profondo sconcerto già il semplice fatto che questo insieme possa essere considerato
esaustivo in qualche modo, e dubito anche che gli eventi di nascita effettivi
possano essere sufficienti per dare un'opportunità di vita a tutti gli elementi
di questo insieme.
Infatti, non sarebbe possibile distinguere in alcun modo queste ipotetiche “individualità”
senza usare differenze fisiche o caratteriali: e poiché comunque non ci sarebbe
nulla che impedisca a due “individualità” di avere caratteristiche identiche, per
distinguerle non basterebbe neanche un elenco infinito di caratteristiche da confrontare;
inoltre, se si pensa che ognuna di esse possa esprimere una propria volontà
individuale, anche il loro comportamento non potrebbe essere prevedibile. Queste caratteristiche
implicano che il numero totale dei "possibili sperimentatori" sia un infinito di
cardinalità maggiore di quello dei numeri interi, come si potrebbe dimostrare adottando
lo stesso
“argomento
diagonale”
che Georg Cantor usò per i numeri reali: e questo impedisce
di avere la certezza che, aspettando abbastanza a lungo, presto o tardi ognuno possa avere la propria
occasione di nascere. Infine, questo insieme di molteplici “individualità” implica
che per ogni nuova vita concepita esista un momento preciso in cui viene selezionato
un particolare "possibile sperimentatore", il che presuppone un dualismo ineliminabile
tra mente e corpo. Qualsiasi alternativa alla terza ipotesi deve fare
i conti con questi problemi; forse, ad una prima considerazione superficiale,
possono non apparire gravi: a me sembrano pregiudizi
insostenibili di cui dobbiamo liberarci.
Continua sulla prossima pagina: "Quale è la soluzione".