6. Da un punto di vista riduzionista, l’identità degli oggetti generici è
riconducibile a qualche caratteristica materiale o strutturale. Per questo,
dobbiamo considerare due gruppi di teorie: quelle che, in ultima analisi,
riducono l’identità a qualcosa di materiale, e quelle che, in
ultima analisi, riducono l’identità a qualcosa di strutturale.
7. Le teorie che riducono l’identità a qualcosa di materiale
presuppongono che gli oggetti materiali abbiano una qualche “identità
intrinseca” che non sia strutturale. Poiché tutti gli oggetti sono composti da
parti, dobbiamo affrontare il paradosso della nave di Teseo: se
gradualmente si sostituiscono i componenti di un oggetto complesso, finiamo con
l’ottenere un oggetto nuovo di zecca, senza più alcuno dei suoi componenti
originali. Il paradosso originale si riferisce alla mitica nave di Teseo, la
prima nave mai costruita, che secondo la leggenda fu conservata dagli ateniesi e
manutenuta nel corso degli anni sostituendo le parti via via deteriorate, finché
nessuna parte originale era più al suo posto. Se crediamo che l’identità degli
oggetti dipenda solo dalla loro struttura, allora possiamo ritenere che
l’identità della nave non sia cambiata. Se invece pensiamo che l’identità degli
oggetti dipenda dall’identità intrinseca di qualcosa di materiale, dobbiamo
concludere che l’oggetto complesso rappresentato dall’intera nave abbia perduto
la sua identità originale. Se qualcuno avesse conservato tutte le parti
sostituite, potrebbe ricostruire la nave originale, per quanto deteriorata.
Secondo questo punto di vista, l’identità di ogni oggetto complesso
dipende dall’identità degli oggetti più semplici che lo compongono. Ma
ragionando in questo modo, ci troviamo rapidamente ridotti a considerare
l’identità intrinseca delle particelle atomiche elementari.
8. Poiché stiamo valutando l’identità degli oggetti come base per il concetto di
identità personale, dobbiamo tenere presente il fatto che noi cambiamo
continuamente la materia che costituisce il nostro corpo, letteralmente ad ogni
respiro che prendiamo. Si dice comunemente, non senza una qualche base
scientifica, che ogni sette anni cambiamo completamente tutta la materia che
costituisce il nostro corpo. A rigore, lo scambio è più complesso ed avviene a
velocità diverse per diverse parti del corpo, ma in pratica è una concezione che
rispecchia quello che ci accade fisicamente. Per questo motivo, i riduzionisti
che sostengono questa teoria dell’identità personale sono costretti a
riconoscere che, al contrario di quanto siamo indotti a credere, non abbiamo la
stessa identità personale che avevamo sette anni fa. Con questa affermazione non
si intende dire che siamo semplicemente invecchiati di sette anni; si intende
dire che noi siamo effettivamente una persona diversa, che crede di
essere la stessa persona che esisteva sette anni fa solo perché abbiamo
ereditato gran parte dei suoi ricordi, dei sui desideri, dei suoi scopi.
Ma quella persona aveva un corpo fisico costituito da materia completamente
diversa da quella che oggi costituisce il nostro corpo. Se qualcuno avesse
collezionato tutte le particelle elementari originali via via sostituite nel
nostro corpo, potrebbe in linea di principio ricostruire lo stesso individuo che
eravamo sette anni fa, costituito esattamente dalle stesse molecole originali.
9. Anche sospendendo il giudizio sulla questione dell’identità personale,
tornando a ragionare solo dell’identità degli oggetti fisici, dobbiamo
affrontare un'altra difficoltà. Il problema sta nel fatto che la fisica afferma
che le particelle elementari si distinguono per le loro proprietà
misurabili, ma non assegna loro alcuna identità intrinseca. Si dice che sono
“indistinguibili”. E se vogliamo immaginare che esse possano avere qualche
nascosta proprietà univoca a cui potremmo ancorare la loro
identità, allora stiamo sostenendo una teoria che non può competere con
le teorie dualiste sul terreno della non-falsificabilità, perché sarebbe
anch’essa non-falsificabile. Si potrebbe pensare che l’identità
di una particella potrebbe definita dalla sua traiettoria nello spaziotempo,
che deve necessariamente essere univoca. In realtà, questa sarebbe una proprietà
geometrica più adatta al concetto di identità basato sulla struttura, che
discuteremo tra poco. Bisogna comunque tenere presente che le coordinate nello
spaziotempo non sono assolute, ma sono sempre relative a qualche sistema di
riferimento.
10. Il fatto che le particelle fondamentali siano indistinguibili è difficile da
accettare: il nostro senso comune ci suggerisce che ogni particella abbia una
propria posizione, e se potessimo seguire la sua posizione mentre si muove nello
spazio, potremmo sostenere con sicurezza che la particella abbia una precisa
identità che non cambia nel tempo. Ma la fisica moderna ci dice che la realtà è
molto più complessa. Anche se possiamo avere una serie di rilevazioni coerenti
nello spazio, niente può garantire che si tratti sempre della stessa particella
rilevata in momenti successivi. L’equazione che esprime la posizione
delle particelle nel tempo le considera come se fossero onde e restituisce come
risultato la probabilità di ogni possibile nuova posizione dopo un certo
intervallo di tempo. Considerare la particella rilevata nella posizione
finale come la stessa particella rilevata nella posizione iniziale è una
generalizzazione arbitraria dovuta dal nostro modo di pensare, ma non
si basa su una realtà fisica. La fisica quantistica considera tutte le
particelle come continuamente emerse e scomparse in una cosiddetta “schiuma
quantistica” di particelle virtuali. Dovremmo pensare alle particelle
elementari come la controparte localizzata di un dato pacchetto di energia, non
come a piccole palline materiali. Possiamo ancora pensare di associare
un’identità ad ogni dato pacchetto di energia, ma il terreno diventa inadatto
per la fondazione di un concetto di identità basato su qualcosa di materiale,
perché i pacchetti stessi rappresentano addensamenti locali dell’energia totale
dell’universo. Un chiaro articolo di Meinard Kuhlmann pubblicato da
Scientific American nell’agosto 2013, e tradotto sul numero di Le
Scienze di ottobre 2013 illustra bene tutti questi problemi sperimentali:
http://www.lescienze.it/archivio/articoli/2013/10/02/news/che_cosa_reale_-1830043/.
Studiando la materia fino ai limiti delle nostre capacità, abbiamo finito col
ritrovarci con equazioni e pacchetti di energia che non possono aiutarci nel
sostenere un concetto di identità basato su qualcosa di materiale. Se
consideriamo tutti gli oggetti fisici come strutture temporanee costituite da
pacchetti di energia che scaturiscono da una instabile schiuma quantistica,
dobbiamo concludere che l’identità degli oggetti è sempre
riconducibile a una convenzione di comunicazione ma non ha mai un
valore assoluto. L’impossibilità di trovare un fondamento solido per il
concetto di identità intrinseca degli oggetti, demolisce anche il
fondamento dello stesso concetto di identità numerica. Questo finisce
con il ridursi ad una semplice convenzione del linguaggio per rispondere ai
nostri bisogni pratici di comunicazione quando parliamo degli oggetti fisici.
Vediamo allora dove ci porta provare a considerare l’identità come qualcosa che
deriva dalla struttura.
11. Secondo Derek Parfit, la nostra identità personale resta la stessa (e perciò
noi restiamo le stesse persone) fin tanto che i nostri tratti psicologici
restano abbastanza simili a quelli che già abbiamo. Dal punto di vista
riduzionista, questi tratti psicologici hanno una corrispondenza fisica con una
certa configurazione di neuroni nel nostro cervello. Per cui, secondo la
proposta di Parfit, la nostra identità personale dipende dall’identità di un
oggetto fisico definita in base alla propria struttura: l’identità di un
cervello con la configurazione neuronale che implementa tutti i nostri tratti
psicologici.
12. Possiamo anche dire che l’identità di un cervello potrebbe basarsi sulla sua
capacità di generare pensieri. Potremmo allora dire che un
cervello in sé non ha identità, ma acquisisce una identità solo quando è
funzionante. Questo potrebbe essere considerato un livello più astratto
di identità basata sulla struttura, ma in realtà non si baserebbe sulla identità
di un oggetto, ma su una proprietà particolare che fa sì che l’oggetto
diventi un soggetto. Torneremo più avanti su questa possibilità, una
volta che avremo visto come il concetto di identità basato sugli oggetti non sia
una buona base per derivarne il concetto di identità personale. Adesso, possiamo
però notare come il concetto di “cervello funzionante” abbia senso solo dalla
prospettiva di un osservatore senziente, perché esprime la capacità del
cervello di generare una mente, che però sappiamo che esiste solo per la nostra
esperienza diretta, ma non è deducibile da una semplice osservazione
fisica: possiamo osservare solo la controparte fisica dell’attività del
cervello, ma la nozione che quella attività genera una mente è provata
solo dalla nostra esperienza personale diretta della nostra propria mente.
13. Poiché stiamo discutendo dell’identità degli oggetti per valutare se sia una
base adeguata per definire l’identità personale, dobbiamo affrontare il problema
rappresentato dal fatto che, poiché l’identità basata sulla struttura non è
legata alla materia necessaria per costruire la struttura, in linea di principio
noi potremmo costruire molti cervelli con la stessa identica struttura
neuronale, e che quindi dovrebbero generare molte menti
numericamente diverse ma con la stessa identità personale. Questo
appare inammissibile, ed è proprio per questo motivo che l’Open Individualism
viene istintivamente rifiutato come ipotesi impraticabile. Parfit prova ad
evitare il problema introducendo una clausola che però ha conseguenze
altrettanto controintuitive. Egli pensa che se il nostro corpo fosse distrutto
ma poi ricostruito in un posto differente, mantenendo la stessa struttura
originale, la nostra identità personale sarebbe conservata. Ma se il nostro
corpo fosse duplicato senza distruggere la copia originale, allora Parfit
ritiene che l’identità personale potrebbe non essere conservata nemmeno nel
corpo originale. Per evitare la possibilità di avere due corpi fisicamente
separati che potrebbero avere la stessa identità personale, Parfit ha
bisogno di introdurre una clausola che specifica che l’identità personale è
preservata a patto che esista solamente un singolo cervello fisico con le
necessarie caratteristiche strutturali, per ogni istante di tempo.
Questa clausola è quello che Daniel Kolak chiama un “epiciclo metafisico”,
che solleva più problemi di quanti ne risolva. Una sua conseguenza implicita è
che l’esistenza di una replica di me stesso da qualche parte nello spazio
potrebbe influenzare la mia identità personale, e quindi che la mia
identità personale non sarebbe definita solamente da una struttura interna al
mio corpo, ma anche da qualche altra struttura presente nel mondo esterno a me.
14. In realtà, lo stesso problema si applica anche quando ragioniamo
sull’identità degli oggetti semplici. Nella nostra vita quotidiana, sappiamo che
due oggetti simili non sono mai realmente identici: se potessimo esaminarli a
livello atomico, riusciremmo a scoprire delle piccole differenze anche in quelli
apparentemente identici. Tuttavia, possiamo immaginare di avere due
oggetti di dimensioni visibili, ad esempio due piccoli cristalli di
sale, esattamente identici tra loro anche se confrontati atomo per atomo.
Anche in questo caso, a livello intuitivo, non diremmo mai che, poiché hanno una
struttura identica, allora devono avere la stessa identità. Faremmo sempre una
distinzione tra loro, parlando di “quello a sinistra” e di “quello a destra”.
Questo significa che anche l’ambiente esterno gioca un ruolo nella
definizione dell’identità dei due oggetti. Ma se limitiamo la
descrizione a un ambiente di dimensioni finite, allora la creazione di un
ambiente identico introdurrebbe nuovamente una ambiguità nella descrizione. Per
specificare lo stesso cristallo che prima potevamo chiamare semplicemente “il
cristallo a destra”, dovremmo dire “il cristallo a destra dell’ambiente a
sinistra” (o a destra). Per evitare definitivamente qualsiasi ambiguità nella
definizione dell’identità di un oggetto basata sulla struttura, dovremmo
considerare un ambiente così grande che sia impossibile copiarlo, per essere
certi che la descrizione non sia ambigua nell’intero universo. Questo
generalo stesso problema a cui ho accennato in precedenza, criticando il
concetto di identità basato sulla materia, sulla possibilità di
collegare l’identità di ogni particella elementare alla sua posizione o alla sua
traiettoria nello spaziotempo. In ogni caso, finiamo con la necessità
di dover considerare l’intero universo per poter definire l’identità di una
delle sue parti.
15. In conseguenza a tutte queste considerazioni, ci troviamo a dover concludere
che l’identità di ogni oggetto, e quindi, se siamo riduzionisti, anche
l’identità personale di ogni essere vivente, non è determinata solo dalla sua
struttura interna, ma anche dalla struttura dell’ambiente che lo circonda.
L’identità di un oggetto non è una proprietà intrinseca che l’oggetto
possiede a-priori, ma piuttosto qualcosa che può essere definito solo
considerando l’ambiente che lo contiene, e per evitare ogni possibile ambiguità,
l’ambiente da considerare deve essere esteso fino a includere l’intero universo.
16. Le parti di universo a cui noi assegniamo identità separate sono
arbitrarie. Ad esempio, due isole vicine tra loro possono essere
considerate come aventi due identità ben diverse, ma se il livello del mare
scende abbastanza, possono diventare una sola isola, con una identità diversa
dalle due precedenti, senza alcun mutamento nella loro struttura interna. È solo
una questione di convenzioni pratiche considerarle come due oggetti differenti
invece che una singola regione geografica più grande, o magari soltanto parti
diverse del pianeta Terra. Le stesse considerazioni si applicano anche a oggetti
che sembrano definiti con maggior precisione, come due cristalli o due orologi.
Noi ci sentiamo rassicurati dal fatto che questi oggetti ci appaiono
spazialmente separati. Effettivamente, questa condizione geometrica
semplifica le nostre convenzioni di comunicazione, ma niente ci impedirebbe di
assegnare loro identità diverse con metodi diversi, senza alcuna perdita in
termini di realtà fisica, sia considerandoli come aggregati di componenti più
piccoli che definiscono la loro identità, sia, più artificiosamente, come
componenti di una coppia che ha una sua identità solo come coppia, come possiamo
fare per una coppia di guanti o di calzini. La ragione per cui ci sembra
naturale assegnare identità diverse a oggetti diversi come due orologi, è che
ciascuno di essi può essere usato per compiere il lavoro di misurare il tempo.
Questo lavoro però ha un significato solo per noi, perché siamo osservatori
senzienti che sono consapevoli che alcuni oggetti possono essere usati per
compiere un lavoro, ma resta il fatto che considerare un orologio come avente
una precisa identità è una decisione che facciamo in modo arbitrario.
17. Considerare tutti gli oggetti come differenti regioni geometriche
dell’intero universo, in pratica trasforma il problema della definizione
dell’identità degli oggetti in quello della definizione dell’identità
dell’universo. Ma l’unico modo di definire l’identità di un intero universo è
quello di definire la sua struttura interna, non avendo altri termini di
paragone. Se due universi non comunicanti fossero completamente identici in ogni
istante della loro storia, la condizione che non siano comunicanti rende
impossibile qualsiasi distinzione come quella che abbiamo immaginato nei
cristalli di sale identici, quando potevamo dire che uno era a destra e l’altro
a sinistra. Non potremmo neanche affermare che le loro storie si svolgono
contemporaneamente, o che una precede l’altra. Senza un quadro comune di
riferimento, queste distinzioni non possono avere significato. La
dipendenza dell’identità basata sulla struttura dall’esistenza di una struttura
esterna in cui localizzare le strutture da confrontare, rende impossibile
definire una identità precisa all’universo intero e fa diventare circolare la
definizione di identità di qualsiasi parte di universo.
18. Una volta perduto il concetto di identità per gli oggetti, anche la
differenza tra i concetti di “tipo” e “istanze” degli oggetti svanisce.
L’istanza di un oggetto può essere considerata come la attualizzazione di una
data definizione di tipo, dotata di una identità univoca. Se ad esempio abbiamo
un conio per fabbricare monete, il conio può essere considerato come il “tipo”
che definisce nei minimi dettagli la struttura delle monete, e le monete
fabbricate sono ognuna una “istanza” diversa di quel tipo, ognuna con una
propria identità univoca, secondo la nostra intuizione istintiva. Ma una volta
che abbiamo scoperto che anche l’identità univoca di ogni moneta deve fare
riferimento all’identità univoca dell’intero universo, che non ha bisogno di
alcuna identità perché non può essere confrontato con niente altro, il concetto
di identità univoca perde qualsiasi senso se non quello di semplice supporto
linguistico. Ma senza questo concetto, la definizione di una attualizzazione di
una istanza senza identità di un tipo finisce con il coincidere con la stessa
definizione del tipo. La descrizione del “conio” necessario per fabbricare un
universo come il nostro coincide con la descrizione del nostro universo.
Qualsiasi altro universo fabbricato con lo stesso “conio” non sarebbe una
istanza uguale a quella del nostro universo ma con una identità diversa: sarebbe
indistinguibile come due particelle elementari, ma senza un ambiente esterno in
cui possono essere osservate insieme. Non avrebbe senso parlare di due
copie di universo numericamente diverse ma dalla stessa identica struttura.
È importante sottolineare che quando considero l’universo nella sua interezza,
intendo che non ci sia alcuno scambio di informazione con niente di esterno. Se
ad esempio noi scoprissimo alcune forze che per essere spiegate si devono
presumere indotte da qualche universo parallelo, dovremmo considerare sia il
nostro universo che l’universo parallelo, o magari un multiverso ancora più
grande, come “l’intero universo” a cui mi sono riferito nella mia discussione.
Una volta che il concetto di identità applicato all’intero universo svanisce, e
sparisce la distinzione tra “tipo di universo” e “istanza di universo”, svanisce
anche la distinzione tra l’esistenza teorica dell’universo e l’attualizzazione
concreta dell’universo che sperimentiamo in prima persona. Intendo dire che
possiamo immaginare di sperimentare direttamente il “tipo” di universo, invece
che l’attualizzazione di una “istanza” di quel tipo. Questo concetto sarà
ripreso più avanti quando discuterò il Problema Esistenziale Generale.