All'inizio del 1900, i fisici avevano il grosso problema di dover conciliare il principio
di relatività di Galileo, secondo il quale non esiste un sistema di riferimento privilegiato
rispetto ad un altro, con le equazioni dell'elettromagnetismo di Maxwell, secondo le
quali la velocità della luce nel vuoto è sempre costante. Si
ipotizzò allora l'esistenza di un "etere" che fornisse il supporto per la trasmissione
della luce, e dunque anche un punto di riferimento assoluto per la misurazione della sua
velocità. Questo etere però non fu mai individuato e non si trovò nessuna minima
variazione della velocità della luce misurata in differenti direzioni. Ciò sembrava
indicare che la Terra fosse ferma rispetto a questo presunto etere, oppure che si
dovesse rinunciare al principio di relatività di Galileo, o alla precisione delle
leggi di Maxwell. Nessuna di queste alternative sembrava soddisfacente per i
fisici di allora (e anche per quelli di oggi). Il genio di Einstein fu quello di proporre
una soluzione drastica, che però funzionava: eliminò l'etere come del tutto inutile,
e con la teoria della relatività ristretta riformulò le leggi del moto, in modo
da salvare sia il principio di relatività di Galileo, sia la costanza della velocità
della luce, e con essa le equazioni di Maxwell. Per fare ciò, dovette rimettere
in discussione i nostri concetti di spazio e di tempo, cosa che allora fu molto temeraria,
ma che alla fine si rivelò essere la scelta giusta.
La rivoluzione che la terza ipotesi propone, si basa su un procedimento analogo.
Per risolvere le contraddizioni generate dalla consapevolezza della precarietà di
ogni cosa esistente nel nostro mondo, e il senso di assoluta imprescindibilità che
ognuno di noi prova pensando alla propria esistenza personale, essa rinuncia al
concetto di anima, o a qualsiasi altro surrogato che dovremmo adottare per distinguere le nostre individualità,
e riformula il concetto di "esperienza dell'esistenza",
considerando come due punti fermi sia la necessità dell'esistenza del mondo in tutte
le sue infinite forme, sia la necessità dell'esistenza di un soggetto in grado di sperimentare queste infinite forme.
Per fare ciò, deve essere sacrificato il preconcetto della molteplicità delle nostre individualità, poiché solo l'unicità del soggetto
che sperimenta l'esistenza può giustificare la sua necessità. Ognuno di noi percepisce
l'illusione di una sua propria anima, o di una sua propria mente, o comunque di un soggetto
interiore che sperimenta l'esperienza di vivere: ma questo soggetto deve necessariamente
essere unico, perché la molteplicità dei possibili "soggetti sperimentatori di vita"
esclude senza appello che l'esistenza di un "soggetto sperimentatore" specifico, quale ad esempio sono
io stesso, possa essere considerata necessaria: un altro “sperimentatore”
poteva benissimo nascere al mio posto, dai miei genitori, alla mia data di nascita,
e con tutte le mie stesse caratteristiche fisiche, senza causare la minima differenza
al resto del mondo.
Per usare una metafora immediatamente comprensibile, mi considero come uno che ha
un biglietto della lotteria e scopre di aver vinto. L'unica spiegazione plausibile
che non richieda la presunzione di un privilegio ingiustificato, è quella di immaginare
che siano effettuabili infinite estrazioni, e quindi che presto o tardi anche il
mio biglietto sarebbe comunque stato estratto, cosa che sarebbe possibile solo se il numero
dei biglietti disponibili fosse dello stesso ordine di grandezza dei numeri interi, il che, come abbiamo già detto, risulta una cosa problematica da sostenere.
Ma la vera domanda fondamentale è un'altra: perché mai io sono titolare di un biglietto
della lotteria? È inutile tentare di divagare dicendo che il biglietto me l'ha dato
Dio in persona; la domanda allora diventerebbe: perché mai io sono uno dei "possibili
possessori” di uno dei biglietti necessari per partecipare al sorteggio? Non serve
partire dalla constatazione che, poiché sono nato, allora significa necessariamente
che ero senz'altro uno di coloro che potevano nascere: così si rigira la questione
senza rispondere, come se si sostenesse che il fatto di essere stati bambini sia
giustificabile con la constatazione che poi si è diventati uomini.
Il problema è che, al di là della valutazione probabilistica della possibilità della
mia esistenza,
nello stesso momento in cui la ragione mi costringe a riconoscere la mia contingenza, e dunque
la mia non-necessità, l'evidenza mi costringe a concludere
di rappresentare comunque
un esito che si è verificato malgrado la sua infima probabilità,
ossia che il mio biglietto è stato estratto; e questa sia pure infima probabilità dimostra inconfutabilmente la necessità della mia presenza "a
priori" nell'insieme di tutti i possibili "soggetti sperimentatori di vita", ossia nell'insieme dei "possessori
di un biglietto", includendo
in questo insieme sia quelli che sono nati, sia quelli che hanno mancato per un
soffio la loro unica opportunità di vita; anche se questo
insieme è infinito, evidentemente
non poteva essere completo senza la mia umile presenza, il che significa che io
dovevo necessariamente essere uno dei "possessori di biglietto".
Questo è il vicolo cieco da cui la ragione
ci impedisce di uscire: se siamo in tanti possibili candidati
a "sperimentare una vita", gli altri potevano esistere, sia pure solo come candidati
potenziali, anche senza di me. Ma se sono qui, significa che era necessario che
anch'io fossi uno di loro e che, per una straordinaria fortuna, ho avuto anche l'occasione
di sperimentare una vita effettiva. Sembra il paradosso del mentitore che afferma
"io sto mentendo": se siamo in tanti, allora io non ero necessario, e tutti gli
altri avrebbero potuto benissimo esistere anche senza di me: ma il fatto che io sono
qui, dimostra che la mia presenza in mezzo a quei tanti era necessaria, fosse soltanto
per il semplice fatto che altrimenti non saremmo stati veramente "tutti"; anche
se non era necessario che io vincessi alla lotteria, era assolutamente necessario
che io partecipassi al gioco: evidentemente, le estrazioni non potevano iniziare
senza la mia presenza "potenziale"; e poi, guarda caso, ho pure vinto.
Solo la terza ipotesi risolve questo problema in modo lineare. L'evidenza dell'esistenza
del mio proprio "soggetto sperimentatore" è imprescindibile, e l'unica spiegazione
plausibile della sua necessità è che esso sia sempre lo stesso per tutti; le altre
ipotesi sono costrette ad escogitare alternative più complicate, che implicano comunque
una condizione di privilegio inesplicabile. Solo se non esistono "tanti"
ma un solo "soggetto sperimentatore", non c'è alcuna improbabilità o privilegio
particolare di cui dobbiamo darci una ragione. Tuttavia, dovremmo sforzarci di superare anche
l'idea
di un "soggetto sperimentatore" che trasmigra come un fantasma da una vita all'altra.
Esiste solo una "sensazione di essere io", una sola "io-ità" che ognuno di noi prova
in prima persona, e che è sempre la stessa per tutti, anche se ognuno pensa che la sua "io-ità" sia intrinsecamente collegata alle sue caratteristiche personali,
e dunque tende a pensare di avere un'anima che racchiude la sua vera individualità: ma la "io-ità" è una, e sperimenta ogni possibile condizione di vita
senza alcuna esclusione. Essa però non ha alcuna informazione o caratteristica che possa "trascinarsi
dietro" tra due esperienze di vita diverse: la comunicazione di informazioni avviene
solo attraverso la realtà fisica che fa da palcoscenico alle nostre vite. Tutte
le caratteristiche individuali che pensiamo di possedere sono interamente dipendenti
da condizioni o eventi fisici che hanno luogo nel nostro corpo e nel nostro cervello:
alcuni sono motivati da cause ambientali, altri da cause innate ma tutti sono sempre riconducibili
a qualcosa di fisico, al nostro DNA o comunque alle nostre condizioni di nascita.
Però, malgrado tutte le influenze fisiche a cui siamo soggetti, penso che la nostra
stessa consapevolezza sia l'elemento chiave che ci permette di esprimere una nostra
vera "volontà", o un nostro "libero arbitrio" se vogliamo usare questo termine,
e questo è ciò che ci rende responsabili delle nostre azioni, e capaci di influenzare
"l'andamento del mondo" sia pure entro i nostri limiti contingenti.
Ho esplicitamente dichiarato che considero l'esistenza del mondo esterno, e quella
degli altri esseri viventi, come uno dei punti fermi della mia costruzione metafisica:
tuttavia credo che sia utile esporre qualche ragionamento per cui, anche se il nostro
"io" è l'unico "io" che esiste, non possiamo sentirci
autorizzati a pensare che
gli altri esseri viventi che incontriamo possano non essere veramente "vivi" come ognuno
di noi sente di essere, ma siano solo
illusioni in un mondo illusorio. Questa posizione tecnicamente si chiama solipsismo,
e ritengo che sia una sciocchezza pericolosa. È una sciocchezza, perché rivela una presunzione
immotivata, di cui chiunque dovrebbe rendersi conto, considerando l'inevitabile
caducità della propria condizione umana; ed è pericolosa, perché porta ad assumere
comportamenti asociali che generano infine danni sia a sè che agli altri. Anche
Cartesio, una volta arrivato alla certezza granitica della propria esistenza in
quanto essere pensante, si trovò ad affrontare il problema di come arrivare a dimostrare
in modo altrettanto certo l'esistenza effettiva del mondo esterno. Qui si trovò
in difficoltà, perché, una volta riconosciuto che i sensi possono ingannarci, allora potremmo ritenere di
essere sistematicamente ingannati, in un'illusione di realtà organizzata da un
diavoletto maligno, al solo fine di tenerci prigionieri in un errore senza via d'uscita:
qualcosa di simile a quanto racconta in modo molto spettacolare il film "Matrix". Per uscire da queste sabbie mobili, Cartesio
affermò che l'idea di Dio come somma di tutte le perfezioni è superiore alla nostra esperienza, e dunque è un'idea innata, che deve venirci direttamente da Lui; e poiché
tra le sue perfezioni è compresa anche la bontà, certamente non ci inganna, e quindi
la realtà esterna non solo esiste ma può anche essere compresa dalla ragione.
Io preferisco una soluzione diversa, che non necessiti della presenza di un vero
e proprio "deus ex machina".
Dal mio punto di vista, l'errore del solipsista è quello di
non considerare che, se gli altri si comportano "come se fossero vivi", ed esprimono
una volontà a volte in contrasto con le sue aspettative, allora dimostrano che esiste
almeno un'altra volontà in antagonismo con la sua, anche se fosse soltanto la volontà
del diavoletto ingannatore di Cartesio. Accettare l'esistenza di una volontà esterna come quella
del diavoletto, o accettare l'esistenza effettiva di tutti gli esseri viventi che
incontro, o anche interpretarla come una forma diversa della mia stessa
volontà (come in definitiva propone la terza ipotesi), non cambia il problema principale: in ogni caso, devo accettare il fatto
che esista una realtà che sto sperimentando, e che si evolve in modo quasi totalmente
indipendente dalla mia volontà cosciente.
Capire la
realtà ultima delle cose rimarrà inevitabilmente al di fuori della mia portata,
se non altro per i limiti di conoscenza che implica il mio stato di essere umano mortale,
ma posso almeno cercare di interpretare ciò che sperimento del mondo esterno con il modello più adatto
che posso escogitare, valutando la sua adeguatezza con l'efficacia che dimostrano
le mie iniziative quando mi comporto conformemente
ad esso. Così,
se pensassi che gli altri non esistono veramente, ciò finirebbe per manifestarsi
con una mancanza di rispetto che poi mi attirerebbe delle antipatie, e di conseguenza
mi potrei trovare isolato dagli altri, e in una situazione più difficile per risolvere
i miei problemi.
Dunque, "funziona meglio" comportarsi assumendo che gli altri siano veramente vivi e sensibili
(e suscettibili) come lo sono anch'io. Poiché la verità
sta sempre dietro ad un velo che la nasconde, possiamo anche pensare che essa non
esista veramente, ma che esistano solo i veli; quando ogni tanto riusciamo a strapparne uno, troviamo
un nuovo modo di interpretare
le nostre esperienze che "funziona meglio" rispetto al precedente; ma una volta
acquisita la consapevolezza che gli esseri viventi che incontro hanno una vera esistenza, e che
per il principio di unicità del "soggetto sperimentatore" sono anch'essi un'altra
esperienza del mio stesso "io", allora dovrei sentirmi molto incoraggiato a trattare
tutti con il rispetto e la solidarietà che vorrei ricevere a mia volta, ed anche
a promuovere le condizioni perché tutti siano
incoraggiati a comportarsi tra
loro con ugual rispetto e solidarietà. Dal mio punto di vista, credere nell'esistenza "reale" del mondo esterno equivale ad essere convinto che ogni interazione diretta o indiretta
che ho con ogni altro essere vivente è un'esperienza che vivo sempre due volte:
una volta come la sperimenta la mia attuale persona, la seconda come la sta sperimentando l'altro.
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