1. Per affrontare il problema della definizione dell’identità personale
(cioè definire cos’è che permette a un particolare organismo fisico di essere
percepito da me come “mio”) e della sua persistenza (cos’è che
permette a questo organismo di continuare ad essere percepito da me come “mio”,
nonostante i suoi continui mutamenti fisici), esistono storicamente due famiglie
di teorie: le teorie dualiste e le teorie riduzioniste.
Ai nostri giorni le teorie dualiste hanno pochi sostenitori, perché devono
appellarsi a qualcosa che non ha una realtà fisica osservabile con gli strumenti
di indagine scientifica. Questo ne fa delle teorie non falsificabili, e per
questo non sono molto considerate nel dibattito scientifico e filosofico
contemporaneo. Tuttavia, per ragioni di completezza non le escluderò nella mia
discussione. Sono convinto che ogni fenomeno mentale corrisponda a un
particolare processo fisico, ma come sarà possibile constatare, la mia critica
all’identità personale sarà rivolta principalmente verso l’identità di tutte le
entità fisiche, e questo potrebbe indurre a credere che il dualismo possa
offrire una soluzione alternativa. Io penso che anche una soluzione dualista non
potrebbe funzionare, mentre invece l’Open Individualism può offrire una
soluzione migliore, che riesce a superare il vero problema alla base della
contrapposizione tra le teorie riduzioniste e quelle dualiste.
2. In breve, le teorie dualiste postulano che la nostra
identità personale sia determinata da un’anima o da un suo sostituto
concettuale, intendendo dire che esiste qualcosa che non è rilevabile dalla
fisica ma che ha una identità ben definita e grazie a questo ognuno di noi
possiede una propria ben definita identità personale. Questo soddisfa il
problema di definire da cosa dipenda l’identità di una persona (“io sono la mia
anima”) e spiega il problema della persistenza (l’anima non cambia durante il
corso della nostra vita). Alcune teorie possono sostenere che l’anima abbia
qualche caratteristica ulteriore non riducibile a niente di fisico, altre la
considerano solo come un segnaposto per la nostra identità personale. Non
considero rilevanti queste differenze. Oltre al problema della
non-falsificabilità, il difetto cruciale delle teorie dualiste
è che se noi supponiamo che l’identità personale di ogni individuo sia definita
dalla sua anima, la ragione dell’esistenza della nostra identità
personale è condannata a rimanere sempre senza alcuna spiegazione razionale:
siamo costretti a riconoscere di ritrovarci ad essere un’anima con una propria
identità univoca, corrispondente a un corpo fisico assegnato in modo forse
arbitrario, ma nessuno potrà mai spiegare perché la mia anima e quindi la mia
identità personale dovessero necessariamente esistere. Siamo costretti a
prendere la nostra condizione come un “dato di fatto”, come se ognuno
di noi fosse predestinato a vivere la sua vita, fin dall’inizio dei tempi, senza
alcuna possibilità di porsi domande sul motivo di questo dato di fatto. Questo
punto sarà affrontato in dettaglio più avanti, quando discuterò il
Problema Esistenziale Individuale.
3. Per evitare l’accusa di dualismo, le teorie riduzioniste
sull’identità personale devono appellarsi a qualcosa di fisico a cui
ridurre l’identità personale, ma questa necessità finisce per creare più domande
che risposte. Queste teorie sono state discusse da molti filosofi riduzionisti e
i loro problemi sono analizzati in dettaglio da Derek Parfit nel suo libro
Reasons and Persons (“Ragionamenti e Persone”), pubblicato dalla Oxford
University Press nel 1984. I problemi che questi filosofi discutono non riescono
a raggiungere delle risposte soddisfacenti perché il loro tentativo è
quello di definire l’identità personale ancorandola all’identità degli oggetti,
dando per scontato che l’identità degli oggetti rappresenti un terreno
abbastanza solido per questo scopo, quando in realtà, come vedremo, è anch’essa
molto problematica. Inoltre, il problema della persistenza dell’identità
personale diventa così difficile da trattare che Parfit e altri autori vi
rinunciano del tutto, asserendo che in realtà noi cambiamo gradualmente la
nostra identità personale nel corso degli anni.
4. All’inizio della parte del suo libro che tratta dell’identità personale,
Parfit fa una distinzione tra identità qualitativa (l’identità
che hanno in comune due oggetti fatti nello stesso identico modo) e
identità numerica (l’identità propria di ogni oggetto, che resta
immutabile nel tempo). All’inizio, Parfit dice che l’identità personale riguarda
l’identità numerica di una persona, ma alla fine, dopo avere esposto tutte le
sue considerazioni, egli è costretto a concludere che in ogni teoria
riduzionista, l’identità personale deve ridursi ad una identità di tipo
qualitativo, tranne nel caso in cui più di una persona abbia la stessa identità
qualitativa, durante uno stesso intervallo di tempo di durata
significativa. Questa eccezione solleva domande più numerose dei problemi che
tenta di risolvere, ed infatti il dibattito su questa conclusione è tuttora
aperto. Ad ogni modo, il lavoro di Parfit identifica l'origine del senso
del sé nella Continuità Psicologica e nella Connettibilità Psicologica.
La Connettibilità Psicologica (Psychological Connectedness) rappresenta
l’esistenza di una qualche connessione psicologica diretta tra due stati
mentali, come il possesso degli stessi ricordi, le stesse intenzioni, gli stessi
desideri ecc. Come la somiglianza fisica, può essere di vari gradi: è
considerata forte quando sussistono un numero alto di connessioni tra due stati
mentali, anche se Parfit non definisce precisamente i requisiti per considerare
sufficiente il numero di connessioni. La Continuità Psicologica è il
mantenimento di una catena ininterrotta di stati mentali con forte
Connettibilità Psicologica tra due stati consecutivi. Questi concetti sono
importanti anche quando si considera il quadro concettuale dell’Open
Individualism, perché costituiscono la base della nostra illusione di
essere diversi soggetti di esperienza, che posseggono identità
personali distinte tra loro che però non cambiano nel tempo.
5. Dal punto di vista riduzionista, lo stato psicologico di una persona può
essere fatta corrispondere ad una struttura fisica di neuroni nel cervello, e
quindi la concezione di Parfit alla fine riduce l’identità personale ad una
forma di identità qualitativa della struttura fisica che la realizza. Altri
filosofi, come Thomas Nagel, pensano che l’identità
personale debba necessariamente dipendere dal fatto che il nostro cervello è
costituito da una massa di materia differente da quella degli altri cervelli,
poiché ogni cervello è una struttura indipendente dalle altre. Questo implica
che sia possibile assegnare ad agglomerati di materia una specifica identità
numerica, da cui dipenderebbe anche l’identità personale. Entrambe
queste teorie hanno il problema di spiegare la persistenza dell’identità
personale nel tempo, perché sia la materia di cui il nostro corpo è
costituito, sia la struttura in cui essa è organizzata cambiano gradualmente nel
tempo. Parfit pensa che la nostra identità personale cambia gradualmente nel
tempo, man mano che la Connettibilità Psicologica non è più mantenuta in modo
sufficientemente forte tra lo stato psicologico attuale ed uno stato psicologico
precedente sufficientemente lontano. Parfit però non definisce precisamente i
requisiti per stabilire se la Connettibilità Psicologica sia sufficientemente
forte da evitare il cambio dell’identità personale. Nella sua concezione
l’identità personale cambia gradualmente, e diventa problematico stabilire per
quanto tempo persista o quali siano le condizioni per cui una persona possa
essere considerata “la stessa persona”. È possibile immaginare che la
sussistenza di tutte le condizioni necessarie non duri più di un istante,
riducendo verso lo zero la durata dell’esistenza di una specifica identità
personale. Questo è il motivo per cui Daniel Kolak ha chiamato questa teoria
“Empty Individualism”, o dell’“Individualità Vuota”. Nel caso più estremo,
dovremmo immaginare di essere congelati in un singolo istante di tempo, soggetti
all’illusione che il tempo scorra. Trovo questa concezione inquietante e
claustrofobica, ma per poterla liquidare definitivamente dobbiamo aspettare di
considerare il Problema Esistenziale Individuale discusso più oltre. Altri
filosofi sono propensi ad immaginare che una persistenza basata su una
combinazione di elementi materiali e strutturali possa permettere all’identità
personale di non mutare durante l’intera vita di un individuo, o forse per un
periodo più breve, ma in ogni caso più a lungo di un singolo istante. In realtà,
neanche un modello misto riesce a rispondere a tutti i problemi che sorgono. Il
punto fondamentale è che tutte le attuali teorie riduzioniste
sull’identità personale considerano l’identità personale come direttamente
dipendente dall’identità dell’oggetto fisico che rappresenta il cervello,
o una parte più grande del corpo che include il cervello. Per questo motivo, per
criticare dalle fondamenta questo concetto dell’identità personale, dobbiamo
iniziare criticando il concetto di identità applicato agli oggetti
inanimati.