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Riduzione all'Open Individualism
Come arrivare ad una nuova versione di monopsichismo ragionando in modo riduzionista
di Iacopo Vettori - Dicembre 2017
Critica del concetto di identità applicato alle persone
19. L’identità personale, o il concetto di identità applicato alle persone, è
differente dalla identità degli oggetti perché deriva direttamente dalla nostra
esperienza personale. Il concetto di identità applicato alla mia persona deriva
dalla mia consapevolezza di poter controllare direttamente e ricevere sensazioni
da una parte limitata del mondo esterno, che io identifico come “il mio corpo” o
più semplicemente “me stesso”. È l’esistenza di un mondo mentale che ci permette
di assegnare un’identità alla nostra controparte materiale, non il contrario.
È
questo collegamento che dà origine alla nostra esperienza di essere un soggetto
fisico distinto, con una identità che non è riducibile a una semplice
convenzione di comunicazione. Nota: Julian Jaynes, nel suo libro Il crollo della
mente bicamerale e l’origine della coscienza, suggerisce che dal punto di vista
antropologico siamo diventati consapevoli della corrispondenza tra l’identità
della nostra mente e l’identità del nostro corpo in secoli di evoluzione
sociale. Questa tesi rafforza l’idea che l’identità che assegniamo al nostro
corpo sia un prodotto dell’identità che riceviamo come intuizione immediata
dalla nostra mente.
20. Il concetto di identità applicato agli oggetti deriva da
un’estensione arbitraria del concetto di identità che applichiamo a noi stessi,
e quindi alle altre persone. Ma questa conclusione solleva la questione
dell’origine dell’identità del nostro mondo mentale. Dovremmo accettarlo come un
dato di fatto? Se la nostra identità personale non può essere ridotta a qualcosa
di materiale o strutturale, allora il concetto stesso di identità sembra essere
intrinsecamente dualistico. Vedremo successivamente che solo l’Open
Individualism può risolvere la questione, evitando tutti i problemi connessi con
le teorie dualiste, ma per lasciamo in sospeso il nostro giudizio sull’origine
dell’identità personale, riconoscendo che al momento non abbiamo una teoria
completa sull’identità personale. Malgrado ciò, proviamo ad esaminare i problemi
che sorgono quando, una volta accettato che il nostro concetto di identità
deriva direttamente dalla nostra esperienza personale, continuiamo a pensare che
ogni persona abbia una propria distinta identità personale.
21. Tutti i
riduzionisti sono d’accordo nel sostenere che ogni fenomeno mentale ha una
controparte fisica in una qualche attività cerebrale, ma devono affrontare il
problema che la nostra esperienza diretta dell’esistenza di un mondo mentale
sembra essere un fenomeno inatteso e non necessario che si genera dall’attività
cerebrale, il cui funzionamento rispetta solamente le leggi della fisica. È
difficile trovare un motivo per negare che un mondo puramente materialista
funzionerebbe assolutamente allo stesso modo anche se dall’attività cerebrale
non si generasse alcun mondo mentale. Sappiamo che il mondo mentale esiste solo
perché ne abbiamo una esperienza diretta, e poi assumiamo che lo stesso accada
anche alle altre persone. Infatti, deduciamo che anche le altre persone abbiano
esperienze coscienti basandoci solo sul loro comportamento e, più recentemente,
sulla nostra conoscenza del funzionamento del cervello e le tecniche che ci
permettono di osservare l’attività cerebrale in tempo reale. Poiché vediamo che
anche gli altri agiscono e reagiscono in modo simile a noi, siamo disposti ad
ammettere che anche loro abbiano la propria “esperienza di pensare” nello stesso
modo in cui l’abbiamo noi. Facendo questa generalizzazione, noi integriamo la
conoscenza oggettiva che ci deriva dall’osservazione e la nostra esperienza
soggettiva di un mondo mentale che sperimentiamo in prima persona. Questa è la
ragione principale per cui il riduzionismo afferma che è possibile mappare ogni
stato mentale su uno specifico stato fisico del cervello, ma non giustifica di
per sé l’esistenza dello stato mentale. Questo è il motivo per cui i
riduzionisti dicono che la mente “emerge” dal cervello (qualsiasi cosa questo
possa significare), e questo è il motivo per cui il problema più difficile della
coscienza (“the hard problem of consciousness”) descritto da David Chalmers è
così difficile da risolvere.
22. Per evitare di spostare la discussione sulla
coscienza invece che sull’identità personale, e quindi evitare la questione sui
diversi gradi e i limiti della coscienza, userò il temine “soggettività” invece
di “coscienza”, per riferirmi all’esperienza di avere una mente, un mondo
mentale che “emerge” dal cervello di un essere vivente. Il termine
“soggettività” evidenzia che l’avere un punto di vista in prima persona è ciò
che manca agli oggetti inanimati ed è invece caratteristico degli esseri
viventi, che per questo motivo possono propriamente chiamarsi “soggetti” invece
che “oggetti”. La mente, o il mondo mentale che ognuno di noi sperimenta
personalmente, può, secondo questa terminologia, essere chiamato il “fenomeno
della soggettività”: questo termine può essere adatto anche per gli esseri
viventi con percezioni minori di quelle umane. Il fenomeno della soggettività è
originato dall’attività cerebrale, ma non esclude necessariamente la possibilità
di altre origini, anche di tipo artificiale. Questo permette di applicare la
discussione a una gamma più ampia di esseri viventi invece che soltanto agli
esseri umani.
23. Poiché secondo il riduzionismo ogni stato mentale corrisponde
ad uno stato cerebrale, chiamerò il processo capace di trasformare uno stato
cerebrale in uno stato mentale “la funzione di soggettività”. L’applicazione
della funzione di soggettività a un a serie ordinata di stati cerebrali ha per
risultato la creazione di una serie di stati mentali che costituiscono la mente
o il “fenomeno della soggettività” come definito precedentemente. Ogni diverso
cervello, attraverso la funzione di soggettività, origina (in apparenza) una
istanza di mente numericamente diversa da tutte le altre, che normalmente
identifichiamo come un soggetto con una propria identità personale.
24. Facendo
riferimento a una “funzione di soggettività”, non intendo affermare che la mente
sia un risultato passivo di un processo fisico che può essere guidato solo dal
caso o dalla necessità, ma piuttosto intendo sottolineare la stretta
corrispondenza tra il cervello e la mente nel senso riduzionistico. Tuttavia
non
voglio escludere che la mente possa avere una interazione attiva con il mondo
fisico, anche se questo non sembra una ipotesi compatibile con il riduzionismo.
Questo è il problema collegato alla possibilità dell’esistenza del libero
arbitrio, e va considerato separatamente dalle problematiche che riguardano la
soggettività e l’identità personale. Ne riparlerò con qualche dettaglio alla
fine di questo documento, per spiegare come l’Open Individualism possa aiutare a
trattare anche questo problema.
25. Fino ad ora, abbiamo visto come l’identità
personale non sia riducibile a una semplice convenzione di comunicazione come lo
è l’identità degli oggetti: al contrario, la nostra consapevolezza della sua
esistenza è la base su cui abbiamo costruito il nostro concetto generale di
identità. Anche se non riusciamo a immaginare a cosa possiamo legare la nostra
identità personale, diamo per scontato che in qualche modo l’identità della
nostra mente sia qualcosa di definitivamente differente dall’identità della
mente degli altri. Se noi esistiamo insieme ad altri nella stessa zona
geografica e nello stesso intervallo temporale, come potremmo mai avere la
stessa identità personale? Per vedere che anche questa banale convinzione
presenta dei seri problemi, dobbiamo considerare alcuni casi particolari che
attualmente sembrano appartenere solo alla fantascienza, ma che in realtà sono
almeno in parte già possibili e sono già stati discussi da molti filosofi come
Derek Parfit in Reasons and Persons. Questi casi riguardano le estreme
possibilità che risultano dalla trasformazione, la divisione e la fusione di
diverse identità personali.
26. In Reasons and Persons, Derek Parfit descrive un
esperimento mentale che chiama “lo spettro combinato”, dove il corpo, il
cervello e il contenuto psicologico del cervello di una persona sono
gradualmente trasformati nel corpo e nel cervello di un’altra persona prefissata
sin dall’inizio della trasformazione, con un procedimento che in teoria sarebbe
capace di mantenere il soggetto in vita e addirittura cosciente. Dal punto di
vista riduzionista, nient’altro può determinare l’identità personale se non la
materia e la struttura del corpo e del cervello (considerando il contenuto
psicologico come l’espressione di qualche struttura neuronale presente nel
cervello). Per questa ragione, egli conclude che l’identità personale deve
cambiare gradualmente durante l’esperimento, di modo che al termine
dell’esperimento il soggetto ha acquisito un’identità personale completamente
differente da quella che aveva all’inizio dell’esperimento. Parfit osserva che
qualche tempo dopo l’avvio del processo di trasformazione, l’identità personale
non è più quella originale, ma non è ancora quella finale. In qualche punto
nello spettro di questa trasformazione graduale, il soggetto si accorgerà di
essere diventato una persona diversa da quella originale. Questo può indurci a
pensare che ci sia un confine netto tra le due identità personali di inizio e di
fine processo, dove la prima identità viene improvvisamente sostituita dalla
seconda, ma Parfit pensa che il cambiamento dovrebbe avvenire gradualmente, e
che ad ogni passo intermedio nello spettro della trasformazione, il soggetto
sarebbe ancora in una qualche misura la persona originale. Ma poiché la persona
finale è stata prefissata fin dall’inizio come una persona completamente diversa
da quella originale, egli esclude la possibilità che niente della persona
originale possa ancora sopravvivere all’estremità finale dello spettro, quando
il soggetto si è trasformato completamente nella persona finale.
27. Parfit
riconosce che questo esperimento mentale solleva un problema. Durante la nostra
vita, la materia che costituisce il nostro corpo cambia continuamente, così come
cambia la struttura del nostro corpo. La struttura del corpo e del cervello di
un bambino sono molto diversi da quella del corpo e del cervello dello stesso
individuo una volta che è cresciuto, a tal punto che le differenze sono
paragonabili a quelle esistenti tra due individui diversi. Parfit conclude che
necessariamente anche l’identità personale di ogni individuo cambia gradualmente
nel corso degli anni. Egli è costretto ad accettare questa conclusione perché
cerca di tenere insieme il riduzionismo e il concetto di identità personale.
28.
A questo punto vorrei far notare che l’Open Individualism potrebbe già essere
dedotto da questa considerazione, se noi assumiamo che gli stati di inizio e di
fine dell’immaginaria trasformazione tra due persone non abbiano alcun ruolo
speciale, e che quindi potrebbero essere sempre considerati come appartenenti
alla stessa persona, una possibilità che Parfit esclude senza considerarla. Egli
non definisce alcun fattore critico che determini in modo preciso se due persone
possano o non possano essere considerate come la stessa persona: semplicemente
osserva che teoricamente una persona qualsiasi potrebbe essere gradualmente
trasformata in un’altra persona qualsiasi, anche scelta in modo arbitrario tra
tutte quelle già esistenti, e da questo fatto deduce che necessariamente la
persona originale e quella finale debbano essere due persone diverse. Kolak in
I
Am You esamina e mette in discussione tutti i criteri che apparentemente segnano
un confine invalicabile tra le identità personali di individui differenti, e
commenta così le conclusioni di Parfit:
“Le recenti analisi dell’identità
personale come quella di Parfit possono in una qualche misura avere successo
nella dissoluzione della colla metafisica [che tiene insieme l’identità
personale, n.d.t.]. Ma, in particolare, la conclusione di Parfit
sull’irrazionalità di aver cura della nostra identità personale si basa
sull’assunto che le forbici metafisiche siano sempre disponibili e affilate.
Questa conclusione, come vedremo nel seguito in sempre maggiore dettaglio, è
falsa. Possiamo altrettanto facilmente spuntare anche le forbici metafisiche.”
(I Am You, capitolo 2, pagg. 93-94),
Ma supponiamo, come sostiene Parfit, che un
certo fattore critico per determinare l’avvenuto cambiamento di identità
personale possa esistere, anche se il cambiamento avviene in modo graduale:
potrebbe essere una certa percentuale di cambiamenti nelle caratteristiche
individuali, e/o nelle facoltà individuali, che nel loro complesso determinano
la mancanza della Connettibilità Psicologica necessaria per considerare
l’identità personale ancora uguale a quella originaria. L’Open Individualism può
essere considerato anche come un caso limite di questo punto di vista, dove
ipotizziamo che le differenze delle caratteristiche psicologiche non abbiano
influenza, e che l’unica facoltà psicologica necessaria per mantenere una
sufficiente Connettibilità Psicologica per considerare che l’identità personale
sia sempre la stessa, sia soltanto la basilare facoltà di “essere un soggetto”,
e quindi di “avere un cervello che in grado di sostenere il fenomeno della
soggettività”. La possibilità teorica di questa versione estrema del modello di
Parfit indica che qualsiasi critica mossa all’Open Individualism si potrebbe
applicare anche al modello di Parfit, sia pure entro limiti i più ridotti
determinati dalle condizioni più restrittive che si possono assumere per
determinare il mantenimento di una stessa identità personale. Ma
l’estremizzazione proposta per l’Open Individualism avrebbe un vantaggio che le
altre versioni non possono avere: eliminerebbe la necessità di definire il
concetto di identità personale in modo riduzionistico, senza richiedere di
appellarsi ad alcuna teoria non-riduzionista: l’Open Individualism può essere
realizzato dal semplice abbandono del concetto di identità personale, negando
che sia mai possibile definire qualsiasi “identità assoluta”, e quindi
riconoscendo che tutte le nostre apparentemente diverse identità personali
debbano essere considerate indefinibili. Vedremo in seguito come questa
concezione possa essere compatibile con l’evidente fatto che esiste una
moltitudine di individui tra loro fisicamente separati.
29. La possibilità della
divisione della mente (mind splitting) attraverso una
divisione del cervello è
descritta da Parfit e da altri autori, e si riferisce alla separazione
chirurgica dei due emisferi del cervello. Negli anni sessanta, questa operazione
fu sperimentata per curare alcuni gravi casi di epilessia. Risultò che
le
persone sottoposte a questa operazione si comportavano come due persone che
condividevano lo stesso corpo. Dal risultato di certi test cognitivi e
comportamentali, sembrava che ciascuna metà del cervello diviso generasse una
propria mente indipendente dall’altra.
30. I casi reali erano irreversibili, ma
è possibile immaginare che la comunicazione tra i due emisferi sia inibita solo
temporaneamente. Parfit e altri autori come Roger Penrose hanno tentato di
immaginare cosa si proverebbe a sperimentare una simile divisione temporanea
della mente, e si sono chiesti se avrebbe potuto preservare la nostra identità
personale. Entrambi hanno concluso che essa sarebbe conservata, almeno nel caso
in cui la divisione fosse stata di breve durata.
31. Ragionare sulla divisione
temporanea del nostro cervello in due emisferi indipendenti, ci costringe a
immaginare che la nostra mente diventi sia la mente generata dall’emisfero
sinistro che quella generata dall’emisfero destro. Questo sembra richiedere la
simultanea esistenza di due differenti identità personali, e quindi l’esistenza
della mia identità personale originaria non sembra sufficiente per spiegare cosa
accade. Per questo motivo, alcuni studiosi preferiscono pensare che in realtà
noi viviamo sempre con due diverse identità personali, una per ciascun emisfero,
anche se non ne siamo consapevoli.
32. Occorre anche considerare che esistono
alcune persone invalide che vivono con una sola metà del cervello funzionante.
Se immaginiamo di poter sperimentare un temporaneo spegnimento di una metà del
nostro cervello, seguita rapidamente da una sua riaccensione, forse nessuno
dubiterebbe che l’esperimento ci permetterebbe di conservare la nostra identità
personale.
33. Ma allora, possiamo anche immaginare che le due metà del cervello
diviso in due siano trapiantate in due corpi differenti. Le due persone
risultanti potrebbero vivere ed agire in modo indipendente. In questo scenario,
sembra assolutamente indiscutibile che si sarebbe necessaria l’esistenza
simultanea di due distinte identità personali. Ma è difficile immaginare
cosa
possa accadere all’identità personale originaria, considerando che probabilmente
la maggior parte di noi riterrebbe possibile sopravvivere con una sola metà del
cervello funzionante, anche se questa fosse trapiantata in un corpo differente.
È l’esistenza simultanea di due candidati ugualmente legittimi per il futuro
dell’identità originaria che mette in crisi la nostra fiducia nella possibilità
della sua sopravvivenza.
34. Possiamo immaginare che le due persone risultanti
siano lasciate libere di vivere la loro intera vita senza mai essere ricongiunte
nel corpo originario, ma è possibile anche immaginare di trapiantare di nuovo i
due emisferi nel corpo originario, e riconnetterli per formare di nuovo l’intero
cervello originario. In questo caso, potremmo pensare che anche l’identità
originaria possa riapparire. Questo è chiamato “fusione delle menti” (mind
melding), e può essere generalizzato immaginando di collegare tra loro anche più
cervelli interi.
35. La fusione delle menti rappresenta l’idea complementare a
quella della divisione della mente: consiste nell’immaginare che due o più
cervelli possano essere connessi insieme per formare un cervello più grande, con
una attività cerebrale unificata, in modo da generare una sola mente. Esistono
già dei dispositivi che ci consentono di rilevare l’attività cerebrale, ed
esistono anche dei dispositivi rudimentali in grado di interferire con la nostra
attività cerebrale, permettendo di percepire un segnale inviato direttamente al
cervello. E in realtà, alcuni esperimenti già compiuti su delle cavie hanno
dimostrato che è possibile collegare i cervelli di due o più cavie in modo da
formare una rete di cervelli (brainlet) che manifesta un comportamento simile a
quello che genererebbe una singola mente distribuita (è possibile consultare
l’articolo della Dott.ssa Karen S. Rommelfanger, della Emory University, a
http://www.nature.com/articles/srep11869).
36. Immaginate di connettere il
vostro cervello a un dispositivo che permette a molte persone di condividere i
segnali dei loro cervelli, in modo che essi agiscano come un solo grande
cervello. Come pensate che vi sentireste? Una volta che il vostro cervello sia
connesso con molti altri, in modo che l’attività cerebrale complessiva diventi
una singola attività sincronizzata, dovremmo concludere che tutti i partecipanti
abbiano una singola mente condivisa, e dunque avrebbero tutti esattamente la
stessa identità personale. Questa esperienza non sarebbe come incontrare qualche
amico ad una festa: dobbiamo pensare che la mente risultante sarebbe incapace di
distinguere da quale cervello provenga. Poiché sarebbe il risultato
dell’attività unificata di tutti i cervelli connessi, sarebbe ugualmente
generata da ognuno di loro. Allo stesso modo, alla ricongiunzione dei due
emisferi del nostro cervello dopo una loro divisione temporanea, non ci
troveremmo a pensare di essere, ad esempio, la mente generata dall’emisfero di
sinistra che poi si è riconnessa con la mente generata dall’emisfero di destra,
ma ci troveremmo invece a pensare, con un certo sollievo, che finalmente la
nostra mente sia tornata ad essere generata da entrambi i nostri emisferi, senza
alcuna distinzione preferenziale tra essi. Così, in modo analogo, una volta che
la mente generata dalla fusione dei cervelli decidesse di disconnettere il
cervello che prima consideravate il vostro, non potreste neanche riconoscere che
si tratta del vostro originario, ma semplicemente “uno dei vostri” cervelli
componenti. Ed anche una volta che voi vi ritrovaste ad essere di nuovo da solo
nel vostro corpo, con il vostro cervello di nuovo disconnesso, sareste
senz’altro profondamente colpito dall’esperienza appena provata, e forse
mettereste anche in dubbio che la vostra identità personale sia davvero la
stessa che avevate in precedenza, e incapace di escludere con certezza che non
siate finito nel corpo di un altro.
37. Lo sconcerto che proviamo immaginando
queste esperienze deriva dal fatto che abbiamo bisogno di credere che sia la
divisione che la fusione delle menti richiedano di creare e distruggere
istantaneamente una o più identità personali. Ma il nostro bisogno di immaginare
che molteplici identità personali siano coinvolte in questi procedimenti è
dovuto alla nostra incapacità di accettare che due o più menti coesistenti
possano avere la stessa identità personale. E in realtà, se noi fossimo disposti
ad accettare questa ipotesi, non avremmo bisogno neanche di postulare
l’esistenza di alcuna identità personale: il concetto si riferirebbe soltanto a
qualcosa di illusorio. Ma prima abbiamo bisogno di riuscire a immaginare che
cosa significa affermare che due o più menti possano avere la stessa identità
personale, in particolar modo quando esse esistono simultaneamente.
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