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Abbiam tirato a sorte coi fiammiferi, chi ci doveva andare.
E’ toccato a me. Mi alzai dal tavolino,
Si avvicinava l’ora di visita in ospedale.
Non ha risposto nulla al mio saluto.
L’ho preso per la mano – l’ha ritratta
Come un cane affamato, che non vuole mollare l’osso.
Sembrava, che quasi si vergognasse di morire.
Non so, cosa si dice a uno come lui.
Ci alternavamo sguardi come un fotomontaggio.
Non mi ha chiesto di restare, né di andarmene.
Non ha chiesto di nessuno del nostro tavolino.
Né di te, Beppe, né di te, Titti, né di te, Lello.
Mi è venuto mal di testa. Chi a chi muore?
Lodavo la medicina e tre violette nel bicchiere.
Raccontavo del sole e mi spegnevo.
Che bello, che ci sono le scale, per correre giù.
Che bello, che c’è il portone, che si apre.
Che bello, che mi aspettate qui al tavolino.
L’odore dell’ospedale mi fa proprio svenire.
Wislawa Szymborska, 1967
da “Sto pociech” (Cento consolazioni)
(traduzione di Alessandra Czeczott)