Considero queste registrazioni uno studio preliminare:
un giorno, forse, farò delle registrazioni complete di video...
ma intanto posso essere fiero di aver completato quest'opera così impegnativa!
La qualità non è sempre perfetta, e sporadicamente sono presenti piccoli errori di dizione.
La versione del testo è quella di Giorgio Petrocchi, la stessa adottata da Vittorio Sermonti e da Umberto Bosco e Giovanni Reggio.
La mia intenzione è di completare i commenti ad ogni canto,
e migliorare la qualità delle registrazioni che ritengo meno riuscite.
La registrazione dei canti mi ha impegnato per quasi quattro anni,
dall'autunno del 2006 all'estate del 2010
I file sono tutti mp3 di dimensione media intorno ai 6 o 7 MB.
======================================================================
TOUR GUIDATO NELLA DIVINA COMMEDIA
Dopo aver completato questa esperienza, ho messo insieme una scelta antologica di brani,
includendo i passi più famosi ed anche alcuni passi tra i più divertenti, interessanti o curiosi.
Sarò lieto di essere contattato da chi fosse interessato a proporre lo spettacolo.Per ulteriori
informazioni e prendere accordi, ho preparato la pagina
Tour Guidato nella Divina Commedia.
======================================================================
ALLESTIMENTO CON IL PITTORE DANIELE RUBINI
Ho preparato delle pagine dedicate ai quadri del pittore Daniele Rubini
che ha allestito la mostra "Personaggi e luoghi della Divina Commedia"
e mi ha chiesto se era possibile abbinare ad ogni quadro una delle mie registrazione
per questo ho preparato questa pagina dove sono elencati
i vari brani abbinati a ogni quadro, ognuno con il QR-Code per ascoltarli da telefonino.
======================================================================
È possibile esprimere una valutazione anonima per manifestare
un giudizio sulla qualità, o l'apprezzamento per l'iniziativa (1 = poco, 5 = molto).
Per i commenti più elaborati è possibile usare la pagina apposita.
Per evitare voti ripetuti, si può votare una sola volta al giorno.
Alla data dell'ultimo aggiornamento, la media aritmetica
risulta essere 4,4599 (su un totale di 287 voti ricevuti).
Grazie a tutti coloro che hanno espresso il loro giudizio.
1=pessimo, 2=scarso, 3=così-così, 4=buono, 5=eccellente
1 = bad, 2=poor, 3=so-so, 4=good, 5=excellent
Link alla versione italiana per Wikipedia di questa pagina
Link to the english version for Wikipedia of this page
Enlace a la versión en español de Wikipedia de esta página
Il testo completo è disponibile presso
Wikisource, Divina Commedia
Non tutti i commenti sono disponibili. Ho iniziato a scriverli all'inizio del Purgatorio,
ma solo dopo la prima dozzina hanno iniziato ad essere abbastanza accurati.
Quelli del Paradiso sono tutti molto dettagliati. Quelli dell'Inferno e i primi del Purgatorio
andranno riscritti completamente, per ora ho messo solo qualche nota. Abbiate un po' di pazienza...
Inferno
Canto I
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
La Divina Commedia rappresenta il percorso di crescita, di raggiungimento della maturità spirituale e morale
di Dante e di ogni uomo. Dante considera la prima metà della sua vita (35 anni, ma in realtà lui non arrivò
a 70 anni, morì a 56 anni), e la giudica disordinata e peccaminosa, paragonandola ad una selva oscura,
in cui ha smarrito la "diritta via". Il solo ricordo di questa esperienza rinnova la sua paura,
e la giudica poco meno peggiore della morte, intesa come la dannazione a cui la vita peccaminosa lo stava conducendo.
Ma tutte le cose che accaddero in questa selva (il suo smarrirsi per tutta la notte, il prossimo avvistamento del colle,
l'incontro con le tre fiere che seguirà, e poi l'incontro con Virgilio), lo portarono poi a trovare anche
tutte le cose belle che ci vuole raccontare. Quando si perse, era pieno di sonno (il torpore dell'anima peccaminosa),
ma sul far del mattino si ritrovò al limitar della selva, ai piedi di un colle, che iniziava ad essere illuminato dal sole.
Questo colle o "dilettoso monte" dove vorrebbe salire, rappresenta la vita contemplativa, in cui vede la sua unica salvezza.
Così Dante riesce a superare la sua paura, e voltandosi indietro riguarda la selva come un naufrago si volta verso il mare dalla riva.
Dopo un breve riposo, inizia a salire verso la cima del colle.
Ma ecco, che appena la salita si fa più ripida, gli si presenta dinanzi una lonza (una lince o forse un ghepardo,
di cui un esemplare, come attesta un documento dell'epoca, fu esposto a Firenze nel 1285).
La lonza lo fronteggia impedendogli il cammino, ma considerando la propizia situazione astrale,
uguale a quella del momento della creazione (tradizionalmente, l'equinozio di primavera), Dante pensa di poterla superare.
Ma ecco che oltre alla lince appare anche un leone, con testa alta e fame rabbiosa, tanto che sembrava che la stessa aria tremasse di paura.
Infine appare anche una lupa, che nella sua magrezza sembrava carica di tutti i desideri, e che per questo impedisce alla società di prosperare.
A questo punto Dante perde ogni speranza di salire il colle, e con l'angoscia di uno che perde tutti i suoi averi, viene spinto di nuovo verso la selva oscura.
Il significato di queste tre fiere è molto discusso, ma generalmente la lonza rappresenta la lussuria,
il leone rappresenta l'orgoglio o la superbia, e la lupa che rappresenta in modo ambiguo sia l’avidità
sia la corruzione della curia romana. La mia opinione personale (non so quanto condivisa dalla critica specialistica),
è che Dante, desideroso di redimersi, possa aver valutato se ritirarsi a vita monastica,
ma poi abbia scartato l’idea considerando la difficoltà di mantenere una vita casta (la lonza),
e di rinunciare alle sue ambizioni personali (il leone), ma soprattutto considerando
lo stato di corruzione della chiesa del suo tempo (la lupa). Infatti, anche se appare in grado di fronteggiare
le prime due fiere, è la terza che lo fa capitolare definitivamente. Della corruzione dei due ordini monastici
che potrebbero averlo attratto (francescani e domenicani) avrà modo di parlare in Paradiso.
Nella sua ritirata precipitosa verso la selva, vede vagamente una persona davanti a lui. Ancora indeciso
se si tratti di una persona reale o di uno spirito, invoca il suo aiuto, chiunque egli sia.
"Non sono un uomo, ma lo sono stato", risponde lo spirito, "e i miei genitori furono di Mantova. Sono nato sotto
Giulio Cesare, e vissi a Roma sotto Ottaviano Augusto, al tempo dei falsi dèi pagani.
Fui un poeta, e cantai le imprese di Enea, figlio di anchise, che venne in Italia dopo la capitolazione di Troia.
Ma tu, perché torni in questa selva? Perché non prosegui a salire sul dilettoso monte che è fonte di tanta gioia?"
Dante ha riconosciuto il suo interlocutore e si rivolge a lui in modo reverente: "Sei proprio tu, Virgilio,
autore di opere così importanti? Mi valga per la tua benevolenza l'ammirazione e il lungo studio che ho dedicato ai tuoi libri.
Tu sei il maestro da cui ho imparato lo stile tragico che mi ha portato tanti riconoscimenti. Vedi la bestia (la lupa)
da cui fuggo: salvami da lei, che mi fa tremare tutto di paura".
Virgilio capisce che Dante non può affrontare la lupa con le sue forze: "A te conviene seguire un percorso diverso,
perché questa lupa ti ucciderebbe piuttosto che farti passare, ed ha una fame insaziabile. Con le sue seduzioni
essa attira molti uomini ('animali', come altrove, è interpretabile come 'esseri dotati di anima'), e continuerà
a farlo finché non verrà un 'veltro' (un cane da caccia), che riuscirà ad ucciderla".
Questo 'veltro' rappresenta un salvatore dell'impero auspicato da Dante, che molti identificano con Arrigo VII,
che al momento della scrittura di questi versi poteva apparirgli come il più probabile 'salvatore', ma questa speranza
in seguito non poté realizzarsi. Il personaggio resta ambiguo, come i versi successivi che lo caratterizzano.
"Egli non cercherà domini né ricchezze, ma sarà guidato dalla saggezza, l'amore e la virtù, e sarà di umili origini
(ma il verso 'e sua nazion sarà tra feltro e feltro' è inevitabilmente oscuro). Egli sarà la salvezza di quell'Italia infelice
per cui morirono in battaglia i grandi personaggi dell'Eneide come la vergine Camilla, Eurialo, Turno e Niso
(in questo elenco, si alternano volutamente i nomi degli eroi troiani con quelli dei nemici,
a significare che tutti concorsero con ugual merito a creare le condizioni per la nascita dell'impero romano).
Il veltro riuscirà a ricacciare la lupa nell'inferno, da cui la fece uscire l'invidia di Lucifero contro gli uomini".
Virgilio, che rappresenta la ragione umana, vede dunque che per Dante la 'via diretta' al monte della vita contemplativa
non è adatta, ma considerando le sue qualità di uomo e di poeta, gli consiglia, per il suo bene ("per lo tuo me'", cioè
"per il tuo meglio") di percorrere un’altra strada verso la redenzione, una strada 'personalizzata',
seguendolo in un luogo eterno (l'aldilà, o forse più specificatamente qui si intende l'Inferno)
dove potrà vedere le anime degli uomini antichi più famosi che si disperano per il dolore, invocando l'annichilimento,
e poi (nel Purgatorio) anche la anime di coloro che nel dolore sono contenti, perché sanno che arriveranno, presto o tardi,
in Paradiso. Dove, se vorrai andare, sarà accompagnato un'anima più degna di Virgilio (cioè da Beatrice):
infatti egli nacque e visse da pagano, e questo gli preclude l'accesso al Paradiso, il regno dove risiede
la reggia di Dio, l'imperatore del mondo. Dante allora richiede a Virgilio di condurlo, che egli lo seguirà
per sfuggire ai pericoli della lupa e della selva, in modo che egli possa vedere l'oltretomba e coloro che lo popolano.
La via personalizzata alla salvazione di dante consisterà nel più impegnativo compito di utilizzare
la propria esperienza e le proprie capacità artistiche per educare tutti gli uomini attraverso la sua poesia,
denunciando senza ipocrisia i mali del proprio tempo. Virgilio si muove, e Dante lo segue.
Canto II
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel secondo Canto, dall'alba che spuntava nel canto precedente, si è già fatta sera.
Dante, solo tra tutti gli esseri animati, che si apprestavano al riposo, si preparava a sostenere
non solo le difficoltaà del viaggio, ma anche la lotta interiore tra i suoi sentimenti di pietà umana
e l'infallibile ma inflessibile giustizia divina, lotta che ricorda perfettamente e sarà materia del suo racconto.
Poi inizia la classica invocazione alle Muse, che fa catalogare il canto come "proemio alla prima cantica",
mentre il primo canto viene catalogato come "proemio a tutta l'opera". Segue anche un'invocazione
alla sua stessa memoria, che nel racconto che sta per intraprendere dovrà dimostrare tutto il suo valore.
Dante si fa lo scrupolo che questo viaggio non possa essere in qualche modo sacrilego o "folle"
(come "folle" sarà il viaggio di Ulisse oltre le Colonne d'Ercole narrato nel XXVI canto dell'Inferno)
e così si rivolge a Virgilio, affinché verifichi che Dante sia veramente degno dell'onore che un tale viaggio implica.
"Tu hai narrato come Enea, che da Lavinia ebbe come figlio Silvio, ancora vivente andò nell'oltretomba
con il suo corpo sensibile. Però se Dio gli permise questo viaggio, a causa delle importanti conseguenze che doveva produrre
è una cosa comprensibile per ogni uomo assennato. Questo infatti portò alla fondazione di Roma che unì il mondo nel suo impero
al momento della nascita di Cristo, e divenne la sede papale, da Pietro a tutti i suoi successori.
Infatti, in quel viaggio che tu hai raccontato, apprese cose che lo aiutarono a vincere e
a far diventare Roma degna di un tale importante incarico. Oltre ad Enea, anche l'apostolo Paolo, ricettacolo
prediletto dello Spirito Santo, ebbe la possibilità di salire ai cieli prima della morte,
come egli stesso racconta nel suo libro "I corinzi", sempre allo scopo di trarne argomenti e stimoli utili
alla diffusione della fede cristiana, unico principio della via verso la salvezza.
Ma io, perché dovrei essere onorato di un tale viaggio? Chi me lo concede? Io non sono Enea, non sono Paolo,
e né io né altri può credere che io sia degno di questo onore. Temo che, se mi lascio indurre a intraprendere
questo viaggio, esso sarebbe per me un colpevole ardimento, una follia che neanche dovrei osare.
Tu sei saggio, e mi capisci meglio quanto non riesca ad esprimermi".
E su quella ormai oscura "piaggia diserta", Dante, come colui che cambia proposito, non vuole più ciò che prima voleva,
perché, pensandoci in modo più approfondito, vide l'impresa che si accingeva a compiere come svuotata del suo valore,
che prima aveva baldanzosamente accettato di iniziare. Risponde Virgilio: "Se ho capito bene le tue parole,
la tua anima è menomata dalla pusillanimità, che tente volte ostacola gli uomini al punto da farli desistere da nobili imprese,
come succede ad una bestia (generalmente si intende un cavallo) che si adombra per aver visto qualcosa
che scambia erroneamente per un pericolo. Perché tu ti liberi da questo timore, ti dirò perché sono venuto
e quello che ho sentito dire di te quando ho iniziato a condolermi della tua condizione. Io ero nel Limbo (tra coloro
che sono sospesi nel desiderio inappagato della visione di Dio), quando mi sentii chiamare da una donna tanto beata e bella,
che spontaneamente le offrii la mia obbedienza. Aveva gli occhi più speldenti delle stelle, e cominciò a parlarmi lentamente,
con voce angelica: 'O gentile anima di Mantova, le cui fama dura ancora nel mondo, e durerà per tutta la sua esistenza,
il mio amico Dante, che mi ama di un amore disinteressato, è impedito nel suo cammino dalla paura, e per quello che di lui
ho udito nel Cielo,temo che non sia già così perduto, che io mi sia mossa tardi in suo soccorso. Adesso vai,
e con le tue abili parole e con quello che sarà utile alla sua sopravvivenza, aiutalo in modo che io ne sia consolata.
Io che ti chiedo di andare sono Beatrice, vengo dall'Empireo dove desidero tornare, spinta dall'amore che guida le mie parole.
Quando tornerò davanti a Dio, loderò molto l'aiuto che mi hai dato'". In queste parole, i commentatori antichi intendevano
che la teologia si serve spesso della ragione umana, anche se non può arrivare a penetrarne tutti i misteri.
Virgilio continua il suo racconto: "Quando Beatrice tacque, le risposi così: 'O donna ricca di quella virtù (la teologia)
per cui il genere umano supera ogni altra cosa tra quelle contenute sotto il cielo della Luna, sono così contento di avere
un tuo ordine, che se anche avessi già ubbidito, mi sembrerebbe comunque di aver fatto tardi: per farti ubbidire,
ti basta solo espormi i tuoi desideri. Ma spiegami il motivo per cui non hai paura di scendere qui nel Limbo,
che fa parte dell'Inferno, dall'Empireo, il cielo più ampio, deve desideri tornare'. Beatrice così mi rispose:
'Poiché me lo chiedi, ti spiegherò brevemente: si deve aver paura solo delle cose che possono fare male,
ma per grazia di Dio la vostra infelicità non mi ferisce, come non sono colpita dalle pene fisiche dell'Inferno'".
Poi Beatrice spiega che per prima una 'donna gentile' si mosse per inviare un soccorso a Dante. Questa 'donna gentile'
è generalmente identificata con la Madonna, a cui Dante era molto devoto, come dice anche in altri passi della Divina Commedia.
Questa chiama dapprima santa Lucia, altra protettrice di Dante, che a lei si rivolgeva per i problemi di vista che lo affliggevano,
e poi Lucia si rivolge a Beatrice, che infine chiama Virgilio. Così, in questo passo Dante ci racconta che Virgilio
gli racconta che Beatrice gli ha detto che Lucia l'ha chiamata perché la Madonna si è rivolta a lei dicendole:
"Il tuo fedele ha bisogno di te, e a te lo raccomando". Lucia, nemica di ogni crudeltà, venne da Beatrice,
che nell'Empireo siede vicino a Rachele (come potremo constatare una volta in Paradiso), invitandola a soccorrere Dante,
il cui amore per lei lo spronò a distinguersi al di sopra del volgo, adesso in lotta per la vita nel punto più pericoloso
dei gorghi che si creano nel limite estremo della fiumana del peccato, quando sfocia nel mare che contrasta la sua corrente.
Così spronata, Beatrice corse a chiedere l'aiuto di Virgilio, confidando nelle sue capacità e della sua saggezza.
Racconta Virgilio: "Dopo avermi detto queste parole, voltò i suoi occhi luccicanti di lacrime, spingendomi a soccorrerti
più rapidamente possibile. Per questo sono venuto e ti ho salvato dalla lupa che ti impediva l'accesso diretto al monte
della redenzione. Adesso che sai che tre donne benedette hanno promosso il viaggio che ti ho proposto, perché hai ancora dubbi?
perché nutri ancora della viltà nel tuo cuore, quando ti ho promesso un viaggio che può condurti alla salvezza?"
Come i piccoli fiori, chiusi e chinati nel gelo notturno si aprono e si raddrizzano sul loro stelo appena il sole li scalda,
così Dante si fece, riprendendo il coraggio che aveva perduto, e rinfrancato si rivolge a Virgilio:
"O come è stata pietosa colei che mi ha voluto soccorrere, e te gentile ad ubbidire subito alle sue parole sincere!
Con le tue parole, mi hai dato di nuovo il desiderio di intraprendere con te questo viaggio, come nel mio proposito iniziale.
Vai adesso, che siamo animati da una stessa volontà, tu sarai la mia guida, il mio comandante, e il mio maestro".
E come Virgilio si mosse, Dante lo seguì per il suo cammino arduo e selvaggio.
Concludo con una riflessione personale che tuttavia non è suffragata da alcuna illustre opinione di studiosi o critici.
La terna benedetta della Madonna, santa Lucia e Beatrice soffre nell'Empireo di una asimmetria dovuta al fatto che
la Madonna è posta nel giro più alto, mentre sia santa Lucia che Beatrice sono nel terzo giro dall'alto.
Dall'amore di Dante per le simmetrie ci si aspetterebbe che santa Lucia fosse nel secondo giro e Beatrice nel terzo.
La mia personale idea alternativa è che la 'donna gentile' che ha tanto a cuore Dante possa non essere la Madonna,
ma un'altra anima del terzo giro dell'Empireo. La mia proposta è che Dante possa aver pensato in modo estremamente delicato
alla sua vera madre, Bella degli Abati, che come sappiamo morì quando lui aveva circa sei anni. Una regola retorica impedisce ai poeti di parlare
esplicitamente dei genitori, ma mi piace l'idea che Dante abbia pensato a un omaggio a lei espresso in modo molto riservato.
A corroborare la mia tesi, posso dire che questa idea è piaciuta molto anche a mia madre.
Canto III
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Appena varcate le porte dell’Inferno, Dante incontra gli ignavi, coloro che sono vissuti "sanza infamia e sanza lodo",
che corrono disperati dietro a un’insegna irriconoscibile, pungolati da insetti fastidiosi.
Questi in vita non fecero scelte impegnative, oggi li chiameremmo "qualunquisti", e non possono
neanche accedere all'Inferno perché, al loro confronto, anche i dannati potrebbero avere qualche motivo di vanto.
Per questo Virgilio consiglia a Dante: "non ragioniam di lor, ma guarda e passa".
Arrivano da Caronte, che traghetta le anime sul fiume Acheronte, una scena che Dante riprende fedelmente
dall’Eneide di Virgilio. Sulla barca, Dante perde conoscenza per un lampo improvviso.
Canto IV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel quarto canto entriamo nel primo cerchio dell’Inferno, dove si trova il limbo,
dove stanno le anime dei giusti che però "non ebber battesmo". Non soffrono,
ma vivono nel rimpianto, e qui sta normalmente anche Virgilio,
insieme a tanti personaggi famosi dell’antichità che indica a Dante,
che è onorato della compagnia di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano.
Canto V
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
I veri dannati iniziano nel secondo cerchio, ma prima di accedere al suo interno, Dante e Virgilio
incontrano Minosse, il mitico re di Creta famoso per essere severo ma giusto, e che già Virgilio
aveva messo a guardia del suo antinferno. È lui che decide a quale girone siano destinate le anime in arrivo.
Dante lo descrive munito di una coda con cui si avvolge un numero di volte corrispondente al cerchio
a cui il dannato deve essere destinato. Minosse si accorge subito che Dante è vivo,
e lo mette in guardia dai pericoli a cui va incontro, ma Virgilio ripete la formula
già usata con Caronte: "vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare".
Le anime dei lussuriosi sono sbattute qua e là da una bufera senza fine, e tra loro
si distingue una lunga fila di anime che morirono per amore: tra queste Semiràmide,
regina degli Assiri, Didone, che si uccise per amore di Enea, poi Cleopatra, Achille e tanti altri.
Ma l’attenzione di Dante è attratta da due anime che volano insieme: sono Paolo e Francesca,
che furono uccisi con un solo colpo di spada da Cianciotto Malatesta, fratello di Paolo e marito di Francesca.
La cronaca storica vuole che in realtà il tradimento fosse segretamente tollerato, e fu vendicato
solo quando la ragion di stato lo rese necessario. Ma il ritratto di Dante proietta i due amanti
in una dimensione epica come la storia di Lancillotto e Ginevra da cui si lasciarono sedurre.
Anche in Purgatorio troveremo i lussuriosi, e anche per altri tipi di peccato esistono sia gironi infernali
che cornici del Purgatorio. La differenza sta nel pentimento che il peccatore deve provare prima di morire,
ed anche nel perdono nei confronti del suo assassino, che traspare ad esempio dalle parole di Pia De’ Tolomei
nel V canto del Purgatorio. Paolo e Francesca non ebbero neanche questa possibilità, e il risentimento
si rivela nelle parole con cui Francesca annuncia che Cianciotto è destinato alla Caina,
la parte dell’Inferno dove sono condannati i traditori dei parenti. Il vero traditore è lui,
che uccise a tradimento la moglie e il fratello.
Tutti i commentatori moderni sono concordi sul fatto che l’ambiguità del verso finale di Francesca
non vada interpretato come indicazione dell’immediata uccisione dei due amanti, ma come un velo di pudore
che Francesca stende su quello che avvenne subito dopo.
Canto VI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel sesto canto, arriviamo al terzo cerchio, dove i golosi sono affondati in una fanghiglia
sotto una pioggia incessabile. Tra questi si fa riconoscere da Dante il suo concittadino Ciacco,
a cui Dante chiede la sorte di alcuni uomini politici dell'epoca, e Ciacco conferma
che sono tutti in varie parti dell'Inferno.
Canto VII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel settimo canto siamo al quarto cerchio dell'Inferno, degli avari e prodighi,
che rotolano inutilmente grossi massi rinfacciandosi a vicenda le proprie colpe.
Più oltre, Dante e Virgilio arrivano al quindo cerchio, nella palude dello Stige,
in cui sono condannati gli iracondi e gli accidiosi, che oggi chiameremmo collerici e depressi cronici.
Canto VIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nella palude degli iracondi, Dante quasi si azzuffa con l'anima di un facinoroso dei suoi tempi, Filippo Argenti.
Poi il traghettatore Flegiàs lascia lui e virgilio alle soglie della città di Dite,
una fortezza che racchiude i peccati più gravi dell'Inferno. Al di fuori di essa sono puniti i peccatori
che non riuscirono a contenere le loro passioni, come i lussuriosi, ora invece iniziano i peccati
che comportano una cattiva volontà, e che necessitano dell’aiuto della grazia di Dio per essere combattuti.
Qui i diavoli non vogliono farli entrare ed anzi li minacciano in modo
molto preoccupante, malgrado la sicurezza ostentata da Virgilio.
Canto IX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Da sotto le mura di Dite, Dante vede anche le Erinni, che minacciano di far venire Medusa,
la cui vista basterebbe a pietrificarlo, così Virgilio si assicura che Dante tenga gli occhi chiusi.
Infine arriva un messo celeste che senza sforzo, con una piccola verga, scardina le porte della fortezza
e permette ai pellegrini di entrare. Qui essi si ritrovano tra le tombe infuocate degli eretici.
Canto X
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel decimo canto dell'Inferno, tra gli eretici, Dante incontra Farinata degli Uberti,
un famoso condottiero Ghibellino che fu nemico di Dante ma verso il quale manifesta
un atteggiamento pieno di rispetto. Nel loro colloquio si interpone Cavalcante dei Cavalcanti,
che riconosce in Dante l'amico del figlio Guido, ma per un equivoco capisce che Guido è morto
e ricade all'interno del suo sepolcro infuocato. Cavalcante spiega che anche se vedono il futuro lontano,
a loro è negato conoscere gli eventi troppo vicini al presente.
Canto XI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nell'undicesimo canto Dante e Virgilio si prendono una pausa per abituarsi al fetore
che emana dal cerchio successivo, e Virgilio ne approfitta per spiegare la struttura
dell'Inferno e la suddivisione dei peccati che quella rispecchia.
Canto XII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel dodicesimo canto siamo al settimo cerchio, dove i violenti contro il prossimo stanno
immersi nel Flegetonte, un fiume di sangue bollente, sorvegliati dai centauri, uniche creature infernali
di cui Dante e Virgilio possono fidarsi, tanto che Dante sale in groppa a Nesso,
che gli indica alcuni dannati e lo porta sull'altra riva del fiume di sangue.
Canto XIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel tredicesimo canto si arriva alla selva dei suicidi, tramutati in arbusti,
dove Dante può ascoltare la voce di Pier delle Vigne che amministrò onestamente
i beni di Federico II, ma poi fu calunniato e preferì uccidersi, commettendo
ingiustizia contro sé stesso.
Canto XIV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
(Commento non disponibile - Bestemmiatori sdraiati sotto una pioggia di fuoco, veglio di Creta)
Canto XV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
(Commento non disponibile - Sodomiti, incontro con Brunetto Latini)
Canto XVI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
(Commento non disponibile - Tre notabili fiorentini: Guido Guerra, tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci)
Canto XVII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
(Commento non disponibile - Usurai con le loro borse, Virgilio si accorda con Gerione, il volo notturno)
Canto XVIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Qui hanno inizio le Malebolge dove stanno tutti i frodatori.
Nella prima bolgia si trovano i ruffiani e i lusinghieri. I primi (tra cui Venedico Caccianemico)
sono sferzati dai diavoli, i secondi,
tuffati in un liquame che sembra tolto dalle fogne terrene. Qui la materia induce Dante a produrre versi
dai suoni aspri e duri e a cimentarsi in un’acrobazia di rime difficili che rendono il brano veramente notevole,
almeno dal punto di vista tecnico. Alessio Interminei sarebbe rimasto (volentieri) sconosciuto, se non fosse
per questo poco lusinghiero ritratto con cui Dante lo ha immortalato.
È famoso anche il fraintendimento per cui Dante condanna la meretrice Taide in questa bolgia,
basandosi su una citazione di Cicerone di un’opera di Terenzio che Dante non conosceva direttamente.
Ad ogni modo, anche se condanna Taide invece del vero adulatore, è da notare
che Dante non la condanna per il fatto di essere una prostituta, ma solo per la colpa dell’adulazione.
Canto XIX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
(Commento non disponibile - Simoniaci, episodio del battezzatore, papa Niccolò III che crede che Dante sia Bonifacio VIII, invettiva di Dante contro i papi Simoniaci)
Canto XX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
(Commento non disponibile - Indovini: Anfiarao, Tiresia, Aronta, Manto che però in Purg. XXII è detta essere nel limbo, origine di Mantova)
Canto XXI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel XXI Canto arriviamo ai barattieri, i corrotti e i corruttori del medioevo.
Questi stanno immersi in un canale di pece bollente, e dei diavoli armati di uncini,
chiamati genericamente “malebranche”, arpionano quelli che si affacciano per avere un po’ di sollievo.
Per descrivere la scena, Dante dipinge un quadretto di vita lavorativa: l’arsenale (o la darsena) dei veneziani,
quando d’inverno riparano le loro navi, usando la pece e la stoppa, intrecciando il cordame, rammendando le vele.
Il "terzeruolo" e l’"artimone" sono la vela piccola e la vela grande.
Rendendosi conto che non è prudente esibirsi direttamente davanti ai diavoli, Virgilio fa nascondere Dante,
che come al solito trema di paura, e affronta un gruppo di diavoli, riuscendo a convincerli di farli proseguire.
Quando Virgilio ha parlato con il capo diavolo, Dante esce fuori dal nascondiglio, e ricorda come,
dopo la battaglia di Caprona, i fanti pisani che avevano patteggiato la resa,
uscirono timorosi tra le fila dei nemici, tra cui militava lo stesso Dante.
Adesso è lui che sente la stessa paura che allora aveva fatto sentire, mentre i diavoli minacciano di colpirlo.
Virgilio chiede le indicazioni per proseguire a Malacoda, il capo diavolo,
che gli spiega che il ponte allineato con il precedente è rotto, per cui
dovranno costeggiare la bolgia fino a quello successivo. Malacoda forma una pattuglia di diavoli
per controllare i dannati, che potrà accompagnarli nel tragitto. I nomi dei diavoli sono invenzioni di Dante;
per noi il più interessante è Alichino, che probabilmente deriva dal nome della maschera francese “Hellequin”,
da cui deriva anche il nostro “Arlecchino”. Dante, come al solito, trema e non si fida, mentre Virgilio,
forte della sua ragione, lo rassicura. E se per una volta l’intelligenza emotiva di Dante
fosse più adeguata dell’intelligenza razionale di Virgilio?
Canto XXII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Le celebri scurrilità da commilitoni con cui si chiude il canto precedente
hanno un’eco meno famosa all’inizio del canto successivo. Inizialmente
si pensa che Dante abbia già cambiato argomento, ma è solo una "presa di giro"
per tornare poi di nuovo sullo stesso tema... bisogna sapere che la cennamella
è una specie di cornamusa usata nelle bande militari.
Successivamente, succede di tutto: un barattiere è uncinato dai diavoli,
e risponde alle domande che gli pone Virgilio, mentre Dante non si azzarda a parlare.
Poi quello propone di chiamare dei compagni immersi nella pece, ma i diavoli non si fidano
e non sono disposti a lasciarlo andare. Ma approfittando della distrazione di uno di loro,
riesce a divincolarsi e si immerge, mentre i diavoli si litigano furiosamente, e cadono nella pece.
Approfittando del trambusto, Dante e Virgilio si allontanano da soli, lasciando i diavoli "così ‘mpacciati".
Canto XXIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
A questo punto, Dante si rende conto che appena si riprenderanno, i diavoli saranno inferociti,
e stavolta Virgilio gli dà ragione. Infatti, eccoli che già si intravedono volargli dietro minacciosi...
allora Virgilio prende Dante di peso e scendono giù a rotta di collo fuori dal sentiero,
in un punto dove la pendenza non è eccessiva, fino alla bolgia inferiore, dove sono al sicuro.
In questa bolgia trovano gli ipocriti, oberati da cappe pesantissime, che fuori sono d’oro,
ma all’interno sono di piombo, come l’ipocrita che non è sincero come appare.
Uno di loro è Catalano, un frate gaudente bolognese che gli rivela che il ponte
che il diavolo aveva indicato come intero, in realtà è impraticabile.
Virgilio capisce che Malacoda gli aveva mentito,
e il frate non perde occasione di schernirlo per la sua ingenuità...
Canto XXIV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
(Commento non disponibile - Virgilio ringavagna la speranza, le serpi e i ladri, Vanni Fucci, 2a profezia esilio di Dante)
Canto XXV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
(Commento non disponibile - Bestemmia di Vanni Fucci, fusione tra uomo e rettile, metamorfosi tra uomo e serpente)
Canto XXVI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
L’ottava bolgia è quella dei consiglieri fraudolenti. Qui i peccatori bruciano in mille fiammelle
che illuminano la distesa come lucciole in una valle. Dante è colpito da una fiamma a due punte.
Virgilio spiega che si tratta di Ulisse e Diomede, puniti insieme per le frodi commesse insieme,
tra cui l’ideazione del cavallo di Troia. Il celeberrimo monologo di Ulisse non necessita di commenti.
Dante ammira il suo coraggio e la sua volontà di conoscenza, ma lo punisce come sacrilego,
perché per trascendere i limiti della ragione e delle capacità dell’uomo, è necessario
il beneficio della grazia divina, che Ulisse non ha. Forse in questa bolgia
Dante gli addebita anche questa sopravvalutazione della ragione umana,
con la conseguente sobillazione della sua "compagna picciola".
Canto XXVII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nella stessa bolgia si tormenta un dannato meno famoso, ma non meno tragico di Ulisse:
è Guido da Montefeltro, padre di Buonconte da Montefeltro, che troveremo in Purgatorio.
Dopo essersi fatto frate francescano, sperava di redimersi da una vita passata a tramare inganni,
ma Bonifacio VIII, promettendogli l’assoluzione, gli chiede un ultimo consiglio, e lui si lascia convincere,
destinandosi alla dannazione. Ingannato dalla promessa del papa, il consigliere fraudolento Guido da Montefeltro
si inganna anche sull’oblio della sua confessione, non avendo capito che Dante è vivo
e che tornerà a riferire al mondo la sua storia. Guido biasima le lotte di Bonifacio VIII con altri cristiani,
come quelle contro i Colonna, il cui feudo era in Palestrina (o Prenestino), vicino a Roma.
Per convincerlo a consigliarlo, Bonifacio ricorda a Guido che il papa ha il potere dell’assoluzione e della scomunica,
e questo rappresenta insieme una rassicurazione e una minaccia. Purtroppo per Guido,
anche in altri passi Dante ci dimostra che non sempre il giudizio di Dio coincide con quello del papa...
Canto XXVIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
(Commento non disponibile - Seminatori di scisma sventrati: Maometto, poi Mosca e Bertran de Born)
Canto XXIX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
(Commento non disponibile - Geri del Bello, poi i falsatori, con Griffolino d’Arezzo e Capocchio)
Canto XXX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
(Commento non disponibile - Il Maestro Adamo, la moglie di Putifarre e il greco Sinone, lite tra Maestro Adamo e Sinone)
Canto XXXI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Per accedere a Cocito, il lago ghiacciato che costituisce il nono ed ultimo cerchio dell'Inferno,
Dante e Virgilio chiedono aiuto al gigante Anteo, che è il più ragionevole di tutti i giganti messi
a guardia di questo ultimo bastione. Nei versi finali colpisce l'immaginazione di Dante che paragona
il chinarsi verso di lui del gigante alla visione della torre bolognese della Carisenda,
vista da sotto la parte inclinata, che sembra sul punto di crollare. Si noti l’ultimo endecasillabo tronco
(di dieci sillabe) che dà un senso di immediatezza al verso finale.
Canto XXXII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
(Commento non disponibile - Le rime aspre e chiocce, il calcio a Bocca)
Canto XXXIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
L’ultimo cerchio dell’Inferno è il lago ghiacciato di Cocito, che è diviso in quattro zone,
dove sono condannati i traditori dei parenti (la Caina, da Caino, citata da Francesca nel V canto),
i traditori della patria (l’Antenòra), degli ospiti (la Tolomea), e i traditori dei benefattori
(la Giudecca, da Giuda Iscariota). La posizione del conte Ugolino e dell’arcivescovo Ruggieri
è ripresa da Dante dalla tebaide di Stazio, dove Tideo, moribondo, rode le tempie della testa mozza di Menalippo,
episodio che Dante stesso cita alla fine del canto precedente. La torre della Muda, dove Ugolino morì,
fu chiamata in seguito torre della Fame. Era in piazza dei Cavalieri a Pisa, ed apparteneva ai Gualandi,
che con Sismondi e con Lanfranchi erano le tre maggiori famiglie ghibelline capeggiate dall’arcivescovo Ruggieri.
L’ultimo verso del monologo di Ugolino lascia aperta la questione se egli abbia veramente mangiato i figli o no.
Le allusioni nel testo sono molteplici ed esplicite, a partire dalla stessa posizione dei due dannati,
ma la critica non ha una posizione unanime, e forse Dante è rimasto intenzionalmente ambiguo
perché anche lui indeciso sulla fondatezza della storia. In seguito, Dante incontra il frate Alberico,
che uccise a tradimento i propri ospiti, e dopo la sua confessione, non mantiene la promessa fattagli
di togliergli dagli occhi i "duri veli", le lacrime congelate, per dargli un poco di sollievo, prima che esse si riformino.
Canto XXXIV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Dante e Virgilio arrivano finalmente a Satana, conficcato nel centro della Terra, di dimensioni gigantesche
ma tutto preso dal suo pianto disperato, con tre teste che masticano i tre grandi traditori dei benefattori:
Giuda Iscariota, che tradì Cristo, e Bruto e Cassio, che tradirono Cesare,
la cui opera di costituzione dell'impero romano era stabilita dalla divina provvidenza.
Virgilio guida Dante per un raccapricciante passaggio lungo il corpo di Lucifero,
al di là del centro della terra, superato il quale risalgono lungo un sentiero nascosto
scavato da un ruscelletto, fino a sbucare nell'emisfero opposto della Terra,
tornando finalmente a "riveder le stelle".
Purgatorio
Canto I
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
"Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno"... così inizia l'ardua salita
purgatoriale.
L’atmosfera del Purgatorio è molto più serena di quella dell’Inferno, ed i peccatori affrontano lietamente le punizioni
che li renderanno degni del Paradiso. Sulla spiaggia dell’isola vigila Catone, fiero
personaggio diventato il simbolo dell'imparzialità e dell'incorruttibilità, così
ammirato da Dante, al punto da sorvolare non solo sul fatto che fosse un pagano, ma anche che formalmente
dovrebbe essere catalogato con i suicidi.
Canto II
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel secondo canto del Purgatorio, Vigilio e Dante si trovano ancora sulla spiaggia dell'isola, quando
sulla spiaggia approda un “lieve legno” (come lo chiamò Caronte) guidato da un angelo,
pieno di anime che devono purificarsi. Tra queste, Dante riconosce Casella, un suo amico musico e cantore.
Per la letizia di tutti, Dante gli chiede se può cantare una delle sue canzoni (tratta dal Convivio)
e Casella incanta tutti con la dolcezza delle sua note. Ma dopo pochi versi, sopraggiunge Catone
rimproverando le anime per la loro negligenza e sollecitandole ad iniziare il loro lungo viaggio verso Dio.
Canto III
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel terzo canto del Purgatorio, Dante incontra coloro che sono morti mentre erano scomunicati, ma che malgrado ciò
hanno meritato la salvezza, anche se devono attendere trenta volte il tempo della
scomunica prima di poter iniziare la salita per la montagna del Purgatorio. Tra
loro, si rivolge a Dante l'anima di Manfredi, figlio di Federico II, che regnò in
Sicilia malgrado l'ostilità della chiesa e poi fu ucciso nella battaglia di Benevento
combattendo contro le truppe di Carlo D'Angiò (1266).
Canto IV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel quarto canto del Purgatorio, Dante e Virgilio iniziano una erta salita. Come Virgilio spiega,
il Purgatorio ha una natura tale che più si procede e più diventa agevole, ma l'inizio
è molto duro. Ad una balza, trovano delle anime in attesa: una di loro è Belacqua,
un amico di Dante che scambia con lui delle bonarie battute, spiegando che, come
gli altri suoi compagni, essendosi pentito dei suoi peccati solo al termine della
propria vita, adesso deve attendere un tempo uguale a quanto ha vissuto, prima di
iniziare la faticosa ascesa sulla montagna.
Canto V
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel quinto canto del Purgatorio, Dante
incontra le anime dei morti di morte violenta, salvati perché morti raccomandandosi
alla misericordia celeste, e perdonando ai loro uccisori. Tra questi, Iacopo del Cassero, ucciso dai sicari di
Azzo da Este nella palude presso la foce del Brenta. Un'altro è Buonconte da Montefeltro,
figlio di quel Guido da Montefeltro che nel XXVII dell'Inferno ha raccontato a Dante
come il diavolo lo avesse preso contendendo la sua anima a San Francesco: l'anima
di Buonconte invece è raccolta dall'angelo di Dio, malgrado le proteste del diavolo
che se lo vede togliere dalle grinfie "per una lacrimetta": e così si vendica sul
corpo, che infatti non fu più ritrovato, facendolo travolgere dalle acque impetuose
dell'Archiano e poi dell'Arno, che lo seppellì con i suoi detriti. In chiusura,
restano memorabili i sei versi della mite invocazione di Pia dei Tolomei, sposa
di Nello dei Pannocchieschi, da lui stesso poi pretestuosamente uccisa.
Canto VI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel VI Canto del purgatorio Dante e Virgilio si disimpegnano faticosamente
da tutte le anime che gli si accalcano intorno,
per chiedere a Dante di ricordarle a coloro che possono pregare per loro.
Poco più oltre, incontrano Sordello da Goito, di cui si riparlerà nel VII canto,
che era mantovano come Virgilio, e per questo lo saluta con un abbraccio caloroso.
Questa manifestazione d'affetto dà a Dante lo spunto per la famosa invettiva contro
l'Italia, divisa da lotte intestine anche all'interno delle mura di una stessa città:
"Ahi, serva Italia, di dolore ostello...".
Canto VII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nell VII canto del Purgatorio Dante brilla per la sua assenza. Infatti tutto il canto è coperto dal dialogo che
tengono Virgilio e Sordello da Goito, che è il maggiore poeta provenzale italiano,
famoso per un compianto in morte del barone Blacatz, in cui esorta tutti i sovrani
dell'epoca a prendere esempio dal coraggio del prode defunto. In modo simile, in
questo canto, dopo aver condotto Virgilio e il taciturno Dante in una accogliente
ansa nel fianco della montagna per passarvi la notte, descrive le anime di alcuni
grandi sovrani che in quella cantano in coro con le altre anime dei neghittosi,
convertiti solo in punto di morte. Tra questi sovrani, l'imperatore Rodolfo di Germania,
il suo rivale Otakar II di Boemia, Filippo III di Francia, Enrico I di Navarra,
Pietro III D'Aragona che canta intonandosi insieme al rivale Carlo I D'Angiò, ed
altri ancora; ma tutta questa lista di personaggi è occasione per dimostrare quanto
raramente a re valorosi succedano eredi altrettanto degni, e ciò deve essere interpretato
come un segno che la grandezza degli uomini non si acquisisce per discendenza, ma
deriva ogni volta direttamente da Dio.
Canto VIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
"Era già l'ora che volge il disio ai navicanti e 'ntenerisce il core..."
è il famoso incipit del VIII canto del Purgatorio.
Nella sera, la campana della "Compieta" salutava il giorno morente. Un'anima si
leva ed inizia a cantare l'inno "Te lucis ante..." con cui si invocava la protezione
di Dio per la notte imminente. Ed ecco che appaiono due angeli a difendere quelle
anime dal prossimo arrivo di un minaccioso serpente. Dante segue Sordello e Virgilio
in mezzo alle anime radunate, e qui incontra il giudice Nino dei Visconti
di Gallura, che lo saluta calorosamente e gli chiede di dire a sua figlia Giovanna
di pregare per lui, mentre ormai teme che sua moglie, Beatrice D'Este, l'abbia dimenticato,
essendo andata in sposa a Galeazzo Visconti di Milano (omonimi ma di diverse origini).
Ma ecco apparire il serpente, simbolo dell'orrore che suscita il male commesso:
gli angeli lo attaccano come astori e lo respingono prontamente; infine ritornano
nel Paradiso, da cui erano scesi. Allora si rivolge a Dante anche Corrado Malaspina,
della Lunigiana, che chiede notizie della sua terra. Dante non c'è mai stato, ma
riferisce del buon nome che il suo casato ha in tutta Europa; e Corrado, per ringraziarlo,
gli predice che entro sette anni avrà modo di convincersi di persona di quanto questa
buona fama sia meritata; infatti nel 1306 Dante fu accolto come onorato ospite dai
marchesi Malaspina.
Canto IX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Finalmente, in questo IX canto, Dante e Virgilio arrivano alla porta del Purgatorio.
Con una elaborata sequenza di citazioni
mitologiche, Dante ci racconta che, gravato dal corpo fisico che i suoi compagni
non hanno, si è addormentato poco dopo il tramonto. Prima di risvegliarsi, quando
ormai era mattino, ha sognato di essere rapito da un'aquila d'oro che lo porta fino
alla sfera del fuoco, talmente ardente che l'emozione lo ha destato di soprassalto.
Resta disorientato constatando di esser solo con Virgilio, e di non trovarsi nel
luogo dove s'era addormentato. Virgilio gli spiega che, mentre lui faceva il suo
sogno, Santa Lucia è scesa per lui dal Paradiso, e l'ha portato in prossimità dell'ingresso
del Purgatorio. Dante si rinfranca e si avvicina al portone con Virgilio. Prima
di questo ci sono tre gradini, che simboleggiano le fasi del pentimento, e sull'ultimo
li attende un angelo che ha il potere di farli entrare. Dante si inginocchia davanti
a lui, ed egli lo lo segna con la sua spada sulla fronte, con sette piaghe a forma
di "P" che Dante dovrà risanare durante la sua salita nei sette gironi del Purgatorio.
Infine mostra una chiave d'argento e una d'oro, con cui apre il portone: le ha ricevute
da San Pietro, e rappresentano la prerogativa della chiesa di comprendere i peccati
e di assolverli. Appena entrano, Dante è colpito da un maestoso coro "Te Deum laudamus"
così grandiosamente cantato che il pellegrino ne intende le parole a fatica.
Canto X
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Come nel X dell'Inferno si muovono i primi passi nella Città di Dite, così in questo
X del Purgatorio si inizia la
salita del Purgatorio vero e proprio. Dopo aver percorso una gola con andamento
a zig-zag, Dante e Virgilio raggiungono una strada che sale costeggiando la montagna.
Qui Dante è colpito da tre altorilievi scolpiti lungo la parete, con una tale arte
che pare di sentire veramente le parole che le immagini raffigurate stanno pronunciando.
La prima scena è quella dell'annunciazione dell'Arcangelo Gabriele a Maria; la seconda
è l'ingresso di Davide in Gerusalemme, durante il quale egli, poco regalmente, si
mise a danzare davanti al popolo per manifestare il suo tripudio al Signore; la
terza è un dialogo tra l'imperatore Traiano e una vedova che lo muove a pietà e
lo convince a renderle giustizia. I tre episodi hanno in comune una diversa forma
di umiltà che viene esaltata e portata ad esempio. Su questa cornice, infatti, espiano
le loro colpe coloro che hanno peccato di superbia: ed infatti, ecco che Virgilio
indica a Dante delle figure che si avvicinano, piegati sotto il carico di un masso,
che li opprime fino al limite della loro sopportazione.
Canto XI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il canto XI del Purgatorio inizia con la celebre
parafrasi del "Padre nostro" recitato dai superbi, mentre avanzano curvi sotto il
peso di grossi macigni. A loro si rivolge Virgilio, chiedendo indicazioni per un
passaggio alla cornice superiore che sia adatto anche a Dante, che è gravato del
peso del suo corpo ancora vivo. Si leva tra loro una voce che li invita a seguirli
per trovare il passo, e poi si presenta a Dante come Omberto Aldobrandesco, signore
di Soana della metà del 1200, che confessa il suo peccato di superbia arrogante.
Un'altro viene riconosciuto da Dante: è Oderisi da Gubbio, un famoso miniatore dell'epoca,
che in vita era tutto preso dalla bramosia di successo (superbia vanagloriosa),
ed ora invece si produce in un sentito sermone sulla caducità della fama terrena,
nel quale, tuttavia, è adombrata anche la fama di Dante come successore dei due
"Guido" (Guizzinelli e Cavalcanti) nella "gloria de la lingua". Poi indica a Dante
un terzo esempio di superbia presuntuosa: Provenzano dei Salvani, che capitanò parte
delle truppe senesi che sconfissero i fiorentini a Montaperti (1260), e ambiva a
divenire signore di Siena, ma poi fu sconfitto e ucciso dai fiorentini presso Colle
Val d'Elsa (1269). Poiché si pentì solo alla fine della sua vita, Dante chiede come
mai non è ancora in Antipurgatorio; ma Oderisi spiega come egli si umiliò a chiedere
la carità sulla piazza del Campo di Siena per raccogliere i soldi necessari a riscattare
un suo amico rimasto prigioniero di Carlo d'Angiò; e questo gesto gli valse la grazia.
Canto XII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XII Canto del Purgatorio inizia con Dante che ancora
avanza chino a lato di Oderisi, ma Virgilio lo invita a procedere, lasciando i superbi
al loro faticoso compito. Poco oltre, il pavimento è decorato con bassorilievi simili
a quelli presenti sulle tombe che si trovano in alcune chiese. Essi sono disposti
in tre file di quattro immagini, più una scena finale che li chiude; tutti rappresentano
episodi di superbia punita, e si contrappongono idealmente agli esempi di umiltà
che avevamo trovato effigiati nel canto X. La descrizione di questi riquadri viene
resa tecnicamente da Dante con quattro terzine che iniziano con "Vedea...", per
la prima riga di quattro immagini, quattro terzine che iniziano con "O ...", per
la seconda riga, e quattro terzine che iniziano con "Mostrava..." per la terza riga.
L'ultima terzina, che descrive la scena finale, è composta da tre versi che iniziano
rispettivamente con "Vedeva...", "O ..." e "Mostrava...". L'acrostico "VOM", interpretando
la "V" come una "U", come era usuale nel medioevo, potrebbe valere per "UOM(O)",
come a simboleggiare quanto la superbia sia insita nella natura umana. I quadri
raffigurati rappresentano rispettivamente: nella prima fila, Lucifero che cade dal
cielo; il gigante Briareo trafitto dalle saette di Giove, contro cui si era ribellato;
Apollo (Timbreo dal suo santuario di Thymbra), Minerva (Pallade) e Marte che rimirano
il campo su cui giacciono sparse le membra dei Giganti da loro abbattuti: Nembroth,
sperduto ai piedi della torre di Babele da lui eretta a Sennaàr. Vale la pena notare
che nella parte finale dell'Inferno avevamo trovato, in ordine speculare, questi
stessi personaggi, con Lucifero al centro della Terra. La seconda striscia illustra
le sorti di Niobe, che l'orgoglio per i suoi quattordici figli portò a offendere
Latona, madre di Apollo e Diana, e che per questo li vide morire tutti, e dal dolore
diventò una statua di pietra; di Saul che, sconfitto dai filistei sul monte Gelboè,
si trafisse sulla propria spada, per cui Davide, maledicendo il luogo, ottenne che
non generasse più alcun frutto; di Aragna, tessitrice della Lidia che fu trasformata
in ragno da Minerva, offesa per essere stata da lei battuta in una sfida di abilità
nella tessitura; di Roboamo, superbo figlio di Salomone, che prima minacciò il suo
popolo, ma poi fuggì per paura di una possibile rivolta. Nella terza fila, troviamo:
Alcmeone che uccise la madre Erìfile per vendicare l'uccisione del padre Anfiarao,
da lei tradito per un prezioso monile; il re degli Assiri Sennacherìb ucciso dai
figli nel tempio di Ninive per avere vilipeso il re ebraico Ezechia; la regina Tamiri,
che sconfisse Ciro di Persia, che le aveva ucciso il figlio, e ne gettò la testa
in un otre pieno di sangue umano, dicendo: "Hai avuto sete di sangue, ora te ne
sazierai"; gli Assiri in rotta dopo la morte del loro generale Oloferne, decapitato
nella sua tenda da Giuditta, come racconta la Bibbia. Infine, nel quadro conclusivo,
sono rappresentate le rovine di Troia dopo la sua sconfitta; tutte le scene sono
riprodotte con una tale maestria, che non le vide meglio chi le vide dal vero. Virgilio
e Dante procedono nella loro strada, ed ecco farglisi innanzi un angelo, che li
guida alle strette scale che conducono alla cornice superiore, e già si sentono
nell'aria nuove voci che cantano in coro; Dante si meraviglia di salire con poca
fatica, e Virgilio gli spiega che l'angelo, battendo le ali, gli ha cancellato la
prima delle sette "P" che egli aveva incise sulla fronte; al che Dante si tocca
incredulo con le dita, e Virgilio non può fare a meno di sorridere.
Canto XIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel XIII canto del Purgatorio, Dante
e Virgilio giungono sulla cornice degli invidiosi, che qui sono indicati non
tanto come coloro che desiderano ciò che gli altri posseggono, quanto coloro che
si compiacciono quando gli altri perdono le cose che hanno in più di loro, sia in
termini di cose materiali che in termini di prestigio sociale, rivelando così la
contiguità etimologica della parola "invidia" con il popolare termine "malocchio";
in questo senso essi fanno da contraltare ai superbi della prima cornice, che invece
si compiacevano di esibire proprio ciò che avevano in più degli altri. Questo ripiano
appare agli occhi di Dante come del tutto privo di dettagli visibili, pervaso di
una accecante uniformità che non permette di distinguere altro che il pallido colore
della roccia. In mancanza di indicazioni, Virgilio si incammina nella direzione
del sole. Ed ecco che si odono sibilare nell'aria, quasi come sferzate, tre voci
in rapida successione: La famosa frase "Vinum non habent", che Maria rivolse a Gesù
alle nozze di Cana, invitandolo così a fare il miracolo dell'acqua tramutata in
vino; "Io sono Oreste" che pronunciarono coraggiosamente insieme Oreste e Pilade
al cospetto di Creonte, che voleva ucciderlo; "Amate coloro che vi hanno fatto del
male", tratta dal discorso di Gesù ai discepoli sulla montagna. In ognuna di queste
frasi, si esalta la generosità e la spinta altruistica, ed esse dunque hanno per
gli invidiosi la funzione di uno stimolo all'espiazione delle loro colpe. Virgilio
invita Dante a guardare meglio il lato della strada dalla parte della montagna,
e Dante infine riesce a distinguere una fila di penitenti addossati alla parete,
lividi come quella, che recitano le litanie dei santi, indossano un ruvido cilicio
e hanno gli occhi richiusi da una rude cucitura di fil di ferro, che già da sola
suscita pietà. Incoraggiato da Virgilio, Dante chiede se qualcuno di loro sia nato
in Italia; risponde l'anima di una donna senese, che si chiamava Sapìa, ed aveva
in spregio tutti i suoi concittadini, tanto che si compiacque della loro disfatta
alla battaglia di Colle Val d'Elsa, a cui abbiamo accennato già due canti fa parlando
di Provenzano dei Salvani, di cui probabilmente era la zia; e confessa che in tale
circostanza osò addirittura bestemmiare Dio; ma salvò la sua anima, perché di lì
a poco si dedicò alla beneficenza, ed anche per merito delle preghiere del frate
Pietro Pettinaio, che all'epoca era ritenuto come un santo. Poi chiede a Dante come
sia giunto fin lì, ed egli spiega di essere vivo ed accompagnato da Virgilio. Così,
lei gli chiede di portare sue notizie a Siena, i cui abitanti speravano inutilmente
di costruire un porto nella palude di Talamone, così come altrettanto inutilmente
cercarono l'inesistente fiume sotterraneo Diana, per avere uno sbocco sul mare.
Canto XIV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
All'inizio del XIV canto del Purgatorio, altre due anime di invidiosi si rivolgono a Dante, chiedendogli chi sia, lui che
ha tanta grazia da venire da vivo nel regno dei morti. Dante tace il suo nome, spiegando
di non essere conosciuto, e dice di venire dalla terra percorsa dall'Arno. La prima
anima coglie lo spunto per descrivere il percorso del fiume, che scorre tortuoso
toccando il Casentino, Arezzo, Firenze e Pisa, e di ogni popolazione critica i difetti,
paragonandoli a bestie: rispettivamente, porci, botoli ringhiosi, lupi feroci e
volpi traditrici. Questa descrizione è in risonanza con il XIV canto dell'Inferno,
in cui si racconta come il pianto che gronda dal gran Veglio di Creta formi successivamente
i quattro fiumi d'Inferno: l'Acheronte, in cui si ingozzano gli ingordi; lo Stige,
dove si azzuffano gli iracondi; il Flegetonte, in cui gli assassini e i tiranni
ribollono nel sangue; e il Cocito, dove i traditori sono stretti nella morsa dei
ghiacci. Nella sua tirata, non manca di profetizzare che il nipote dell'anima che
gli è vicina presto diventerà un sanguinario condottiero fiorentino. Dante chiede
chi siano, e l'anima risponde di essere Guido del Duca, un giudice ghibellino romagnolo
morto verso la metà del 1200; il suo vicino è Rinieri da Càlboli, guelfo di Forlì
morto nel 1296; nessuno di questi due signori era particolarmente noto, se non per
il loro carattere di invidiosi; il nipote di Rinieri a cui si riferisce la profezia,
è Fulcieri da Càlboli, a cui nel 1303 fu affidata la podesteria e il capitanato
di Firenze, che egli esercitò con sanguinaria ferocia. Dopo aver parlato di questo
personaggio, l'anima di Guido del Duca continua con un lungo catalogo di personaggi
importanti della Romagna, lamentandone la inarrestabile decadenza. Storicamente,
dopo la morte di Federico II (1250), la Romagna si trovò divisa in fazioni dove
prevalsero i signorotti più brutali e spregiudicati. Questa carrellata di personaggi
termina con lo sconforto dell'anima che racconta, che si chiude in un pianto silenzioso.
I due poeti riprendono la via, e come all'inizio del canto precedente, sono sorpresi
da due frasi che risuonano improvvise: "Mi ucciderà chiunque mi incontri" è il lamento
di Caino, dopo la maledizione che Dio gli getta per aver ucciso Abele; mentre "io
sono Aglauro che divenni sasso" è la citazione da Ovidio del destino della sorella
di Erse, che spinta dall 'Invidia in persona, tentò di mandare a monte il matrimonio
della sorella con il dio Mercurio, per cui egli la fece diventare di pietra. Entrambe
le frasi sono esempi di invidia castigata, e Virgilio commenta con amarezza come
gli uomini, adescati dall'invidia, si lascino accecare, perdendo il giusto cammino
verso le vere bellezze eterne del cielo. Mi permetto di proporvi una breve riflessione,
per farvi notare quanto sia diffuso questo vacuo comportamento, nella nostra decadenza
plastificata, in cui la misura del nostro valore sociale sembra consistere unicamente
nel possesso di beni superflui che ci vengono continuamente proposti come assolutamente
indispensabili, spingendoci a ignorare l'imbarazzante consapevolezza che il limite
fisico di tutte le nostre risorse naturali si sta rapidamente avvicinando.
Canto XV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XV canto del Purgatorio brilla di luci che si moltiplicano e si riflettono fino
alla sua fine. Inizia con Dante e Virgilio che camminano verso il sole abbagliante
del pomeriggio; Dante si accorge che la luce diventa più intensa, si ripara gli
occhi con la mano, ma non riesce a distinguere cosa accada; Virgilio gli spiega
che si tratta di un altro angelo, e che presto anche lui sarà in grado di sopportarne
la vista. L'angelo li invita a salire per una scala erta meno delle precedenti,
e subito Dante sente due cori che parafrasano due passi del discorso della montagna
di Cristo. Salendo, Dante chiede a Virgilio dei chiarimenti su una frase che nel
canto precedente aveva pronunciato Guido del Duca, che alludeva alla colpa di desiderare
ciò per cui è conveniente escudere gli altri compagni ("là v'è mestier di consorte
divieto", v. 87). Virgilio spiega che solo i beni materiali diminuiscono quando
aumenta il numero di coloro con cui sono divisi, mentre l'amore e la carità celeste
crescono con il numero dei partecipanti, così come un raggio di luce si moltiplica
quando si riflette su tanti specchi vicini. Appena affacciato sulla terza cornice,
su cui scontano le loro colpe gli iracondi, Dante è rapito da tre visioni mistiche,
in cui si esalta la virtù del perdono, che rappresenta l'opposto dell'ira: nella
prima, la Madonna si rivolge a Gesù adolescente che si era allontanato da casa,
lasciando i genitori in apprensione, quando si mise a discutere con i saggi nel
tempio di Gerusalemme; nella seconda, Pisistrato placa l'ira della moglie che avrebbe
voluto che egli si vendicasse di un giovane che aveva corteggiato pubblicamente
la loro figlia; nella terza, rivede il martirio di santo Stefano, che, lapidato,
non cessa di tenere lo sguardo sulla visione del regno dei cieli che gli era sempre
di fronte, e muore perdonando i suoi assassini. Appena Dante torna in sé, è subito
invitato da Virgilio a proseguire con un passo più sicuro; ma ecco che in questo
scenario di luce riflessa e diffusa, avanza una scura nebbia che inesorabilmente
avvolge e toglie il respiro ai due pellegrini.
Canto XVI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Quanto era luminoso il XV canto, tanto è buio il XVI canto del Purgatorio,
il cinquantesimo dei cento di tutta la Commedia,
ambientato nella terza cornice, dove sono situati gli iracondi. In questo buio che
irrita gli occhi, Dante si fa guidare
dal braccio di Virgilio, mentre si sentono voci che cantano all'unisono i versi
di preghiera che iniziano con "Agnus Dei", cioè "agnello di Dio", l'appellativo con cui Giovanni Battista aveva chiamato
Gesù, che è l'esempio migliore della mansuetudine di cui difettarono
questi peccatori. Uno di essi interpella Dante, che gli spiega di avere il privilegio di essere solo
un visitatore, e gli chiede se può accompagnarli per trovare la
via verso la prossima cornice. L'anima fa loro strada con la sua voce, e si presenta come
Marco Lombardo, che fu un saggio uomo di corte del duecento, forse della Marca Trevigiana.
Presentandosi, accenna con amarezza alla decandenza dei valori cortesi, e Dante
ricorda come due canti fa anche Guido del Duca abbia espresso le stesse critiche;
così chiede a Marco se questa decadenza sia causata da una congiuntura astrale poco
benigna, o sia solo responsabilità degli uomini. Marco chiarisce che le stelle dànno
solo una influenza iniziale, ma è l'uomo, con il suo libero arbitrio, ad avere le
responsabilità delle sue azioni, altrimenti la giustizia divina non sarebbe motivata. I versi successivi
sono citati da Thomas Eliot in "Animula", di cui potete trovare un video nella
pagina dedicata al "Centro Coscienza":
l'"anima semplicetta" nasce come una bambina che
piange e ride in modo istintivo, ma va saputa educare in modo che possa esprimere
consapevolmente il suo intelletto, che non è influenzato dagli eventi astrali. Per
questa educazione è necessaria la legge, che deve essere amministrata dall'imperatore,
mentre la prerogativa dei sacerdoti è invece quella di interpretare ed esporre le
Sacre Scritture. In conformità con un'allegoria biblica, queste prerogative sono
associate alle due qualità che devono avere le bestie considerate "pure" e quindi
"commestibili" nell'Antico Testamento: devono essere ruminanti con lo zoccolo bipartito
(come le mucche, ma non come i cammelli o i maiali). Purtroppo, quando il Papa si
arroga poteri temporali, si verifica questa sovrapposizione che con il suo cattivo
esempio è la prima causa della degenerazione dei nobili valori della cortesia. Marco
continua citando, come esempi di tre vecchi nobili ancora vivi, Corrado da Palazzo,
Gerardo da Camino e Guido da Castello. Dante sembra non riconoscere il secondo,
e chiede altre informazioni; Marco si meraviglia che, essendo toscano, non ne abbia
sentito parlare, ed aggiunge che ha una figlia che si chiama Gaia. Ma ormai si intravede
un barlume che indica la vicinanza dell'angelo che sta all'accesso della cornice
superiore, e il buon Marco deve congedarsi da Dante e Virgilio.
Canto XVII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XVII canto del Purgatorio, ci introduce nella cornice
degli accidiosi. Dante ci racconta come lentamente stava affiorando dal buio della precedente
cornice degli iracondi, quando fu preso da tre rapide visioni di iracondia punita:
l'immagine dell'usignolo in cui fu mutata Progne, dopo che per vendetta ebbe dato
in pasto al marito Tèreo il figlioletto Ifi; la crocifissione del feroce Aman, che
il re Assuero, convinto da Esther, condannò alla morte che egli aveva predisposto
per il saggio Mardocheo; il pianto di Lavinia sul corpo della madre Amata, che si
uccise credendosi responsabile della morte di Turno, che ella aveva spinto alla
guerra contro Enea, non accettando le nozze di
questi con sua figlia. Poi una forte
luce scuote il pellegrino dalle sue visioni, ed un angelo invita lui e Virgilio
a salire le scale che conducono alla cornice successiva. Mentre sale, Dante si accorge come
in un batter d'ala un'altra "P" sia sparita dalla sua fronte; e come arrivano al
sommo della scala, una spossatezza li pervade, mentre le prime stelle iniziano a
brillare in cielo. Sostando un poco, Dante chiede a Virgilio quale peccato sia qui
punito, e il maestro non solo chiarisce che si tratta degli accidiosi, ma traccia
una panoramica del Purgatorio analoga a quella che a suo tempo fece nel canto XI dell'Inferno. Qui nel Purgatorio, la
catalogazione dei peccati rispecchia quella dei tradizionali sette vizi capitali: superbia, invidia, iracondia,
accidia, avarizia, gola, lussuria. Questi peccati, che sono puniti in Purgatorio
a condizione che siano stati per tempo seguiti da un sincero pentimento, possono
essere considerati come "errori" della facoltà d'amare che ogni uomo ha. Virgilio spiega che l'amore naturale, ad esempio
quello che ci lega ai genitori, è sempre senza errori, mentre l'amore che si segue
con la ragione può errare per essere rivolto all'oggetto sbagliato, oppure per essere espresso
in modo
troppo fiacco o troppo impetuoso. Poiché, almeno per quanto riguarda la
giurisdizione del Purgatorio, non si può volgere da sé stessi l'amor
proprio, e non si può non amare Dio in quanto creatore della nostra vita, l'errore d'amore può avere come oggetto solo il nostro prossimo. La mancanza
d'amore per il prossimo si manifesta nei superbi, che vogliono primeggiare a costo
di umiliare gli altri, negli invidiosi, che temono di perdere i loro privilegi se vengono riconosciuti
i meriti degli altri, e negli iracondi, che sfogano sugli altri il loro
rancore per le ingiustizie che pensano di avere subito. Gli altri peccati non errano per mancanza
d'amore o per cattivo oggetto, ma per la loro misura: per gli accidiosi, la colpa è quella di non
avere
abbastanza bramosia di raggiungere l'oggetto del loro amore, che in definitiva è
Dio; mentre l'opposto peccato di incontinenza riguarda chi si è dedicato con troppa insistenza
a godere dei beni che Dio ci rende disponibili;
Virgilio invita Dante a capire
da solo quali siano le tre sottocategorie che lo suddividono, ma senz'altro Dante
sa già che si tratta dell'avarizia, della gola e della lussuria.
Canto XVIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
All'inizio del XVIII canto del Purgatorio, ritroviamo Virgilio che ha appena terminato la sua spiegazione
sulla classificazione dei peccati; Dante, non senza qualche scrupolo, gli chiede
di specificare meglio la natura dell'amore. Virgilio spiega che l'amore sorge in
modo naturale per ogni cosa che dà piacere, che accende il desiderio; però non tutte
queste forme d'amore sono lodevoli. Dante chiede come possa essere ascritto all'anima
il merito o la colpa di queste forme d'amore, se sorgono tutte in modo naturale.
Virgilio allora specifica che ogni cosa ha una sua forma sustanziale, che nel caso
dell'uomo è la sua anima, che non è visibile direttamente, ma si manifesta attraverso
le sue azioni; ed ogni desiderio naturale, può e deve essere sottoposto al vaglio
della sua consapevolezza razionale, e la responsabilità delle nostre scelte nasce
proprio da questo esame critico, che rende possibile la morale: questo è ciò che
Beatrice chiamerà "libero arbitrio". Dante ripensa a questi insegnamenti, mentre
sotto il cielo stellato con la luna alta, sta per essere preso dal sonno. Ma all'improvviso
alle loro spalle sopraggiunge una calca di gente che corre e grida esempi di sollecitudine,
come virtù contraria dell'accidia: Maria che, già incinta di Gesù, va a trovare
la cugina Elisabetta, che anche se vecchia, è miracolosamente incinta di Giovanni
Battista, e Cesare, che lasciando Decimo Bruto all'assedio di Marsiglia, andò a
combattere i pompeiani Afranio e Petreio ad Ilerda, in Spagna, mentre gli altri
incalzano con altri incitamenti. Virgilio chiede se qualcuno possa indicare loro
la strada per proseguire appena farà mattina: gli risponde, scusandosi per la fretta
che gli impone la giustizia divina, l'anima di un abate di San Zeno a Verona, che
non perde occasione di biasimare come l'abbazia fosse stata affidata al figlio indegno
di un potente signore dell'epoca; si tratta di Alberto della Scala, signore di Verona,
che impose a capo del convento il figlioccio Giuseppe, nonostante le sue evidenti
menomazioni fisiche e mentali. È notevole il fatto che Dante non si sia fatto scrupolo
di muovere questa critica malgrado fosse stato ospite del suo successore, Cangrande
della Scala. È anche il caso di notare come questa critica di indebite ingerenze
del potere dei nobili nelle gerarchie ecclesiastiche sia perfettamente speculare
alle critiche di Marco Lombardo nel XVI canto. In coda alla torma che fugge, altre
due anime gridano la loro riprovazione per quegli ebrei che nel deserto, per mancanza
di fede, rifiutarono di seguire Mosè verso il Giordano, e perirono miseramente;
e per quei troiani che, sfiduciati e stanchi di seguire Enea nelle sue peregrinazioni,
si stanziarono in Sicilia occidentale, accontentandosi a un'esistenza priva di gloria.
Una volta dileguati tutti questi penitenti, Dante infine si perde nei suoi pensieri
e si addormenta passando gradualmente da quelli al sogno.
Canto XIX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XIX canto del Purgatorio, inizia con il sogno di Dante di una figura femminile balbuziente
e deforme che si avvicina a lui; ma come egli la guarda, gradualmente lei diventa più bella,
e inizia a cantare soavemente di essere una sirena ammaliatrice dei marinai, che
riuscì a distogliere anche Ulisse dal suo desiderio di nuove scoperte; ma ecco che appare
un'altra donna, onesta e sollecita, che chiama Virgilio in soccorso; il quale mostra
a Dante come la dolce sirena non sia altro che una ingannatrice ripugnante.
Dante si sveglia, mentre Virgilio lo chiama; il sole è già sorto ed
essi raggiungono
l'angelo che indica il passaggio verso la quinta cornice, e con un colpo d'ala toglie
la quarta "P" dalla fronte di Dante; egli però avanza ancora pensieroso per il sogno appena fatto
e, come se fosse stato realmente presente, Virgilio gli spiega che quella creatura rappresentava
l'incontinenza del desiderio che si punisce nelle tre rimanenti cornici del Purgatorio. Conformemente
a quanto gli ha spiegato nel canto scorso, il fascino di queste passioni ingannevoli si controbatte
con la ragione, rappresentata dalla donna onesta e da Virgilio stesso, che ha svelato l'inganno.
Confortato da questa spiegazione, Dante sale su per il varco con la spinta di un falcone da caccia.
Sulla quinta cornice sono puniti gli avari, ma per noi
è più adeguato
pensare agli avidi, perché il loro peccato non è quello di non aver condiviso i propri beni
con gli altri, quanto piuttosto di essere stati preda di
una insaziabile bramosia di possesso di beni e potere.
Come da vivi non fecero caso alle cose celesti e cercarono solo i beni terreni, così qui
sono costretti a stare sdraiati e voltati verso terra. Virgilio chiede loro quale sia la via più breve
per proseguire, e risponde un'anima a cui Dante chiede chi sia: si tratta del papa Adriano V,
che morì poco più di un mese dopo la sua elezione; ma fu abbastanza per
rendersi conto di quanto vana
fosse la bramosia di potere che lo aveva spinto fino a quel titolo, che lo lasciava insoddisfatto,
nonostante rappresentasse il massimo traguardo possibile per l'ambizione terrena. Così si rivolse
appena in tempo alla vera fede, anche se adesso sconta i suoi precedenti peccati. Dante,
al cospetto di un papa, istintivamente si inginocchia; ma egli lo esorta a rialzarsi: qui sono tutti
ugualmente servitori dello stesso unico Signore, e cita una frase di Gesù
Cristo in cui dichiarava che
in cielo non ci sono legami di matrimonio, e quindi, per estensione, neanche gerarchie ecclesiastiche.
Prima di tacere, l'anima ricorda con benevolenza una sola nipote, Alagia, che è l'unica che ancora
prega per lui, e che probabilmente è la fonte di Dante di questa conversione di Adriano V, poiché
ebbe occasione di incontrarla quando, durante il suo esilio, fu ospitato in Lunigiana dai marchesi Malaspina.
Canto XX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel XX canto del Purgatorio
Dante lascia Adriano V alla sua penitenza, e prosegue la salita con Virgilio, camminando
con attenzione tra i peccatori, riprendendo il paragone tra l'avidità e una lupa
affamata di cui auspica la cacciata imminente, che già abbiamo incontrato nel primo
canto dell'Inferno. Tra i lamenti, riconosce una voce che invoca Maria, che viene
lodata come esempio di virtù contraria all'avidità, per la povertà in cui partorì
Gesù, e il console Fabrizio Luscinio, che preferì una onesta povertà alla ricchezza
che il re Pirro gli offrì per ingraziarselo. Dante gli si avvicina, mentre egli
ancora loda la generosità priva di ostentazione del vescovo san Nicola di Mira che
fece una donazione anonima a tre fanciulle povere permettendo loro di sposarsi onestamente,
mentre il padre le spingeva a prostituirsi. Per inciso, questo san Nicola è conosciuto
anche come san Nicola da Bari, e in nord Europa come Santa Klaus, per cui si tratta
del personaggio storico da cui è nata la figura di Babbo Natale. Dante raggiunge
il penitente e gli chiede chi sia: ed egli risponde di essere Ugo Capeto, il capostipite
dei re Capetingi di Francia, che dureranno oltre l'epoca di Dante, fino a Luigi
XVI. Egli si duole della "mala pianta" che ha generato, preveggendo una sconfitta
dell'esercito reale dai fiamminghi di Douai, Lille, Gand e Bruges, e prega Dio ("colui
che giudica tutto") che avvenga presto. Racconta (in modo storicamente non troppo
preciso) come egli fosse figlio di un macellaio di Parigi, e quando i precedenti
re Carolingi si estinsero (salvo Lodovico V che però si fece monaco), si fosse
ritrovato nella posizione più favorevole per ereditare il regno e così, a partire
da suo figlio, i suoi discendenti furono re di Francia. Non fecero troppi danni,
finché non si impadronirono anche della Provenza; ma da quel momento in poi la loro
avidità non ebbe più freni. Sono responsabili della conquista di Ponthieu, della
Normandia e della Guascogna; Carlo I d'Angiò, sceso in Italia, sconfisse e fece
decapitare Corradino di Svevia, e secondo alcune fonti fece uccidere anche san Tommaso
d'Aquino. Carlo di Valois armato di poche milizie e molta astuzia, entrò a Firenze
come paciere e poi cacciò i guelfi bianchi, tra cui anche Dante. Carlo II d'Angiò
combinò un matrimonio di convenienza tra la figlia giovanissima Beatrice e Azzo
d'Este, in pratica facendone mercimonio. Infine, Filippo il Bello fece minacciare
il vecchio papa Bonifacio VIII, a cui pure Dante non ha risparmiato critiche, ma
che rappresentava comunque il vicario di Cristo in terra; non sazio, perseguì e
fece sopprimere l'ordine dei Templari (a cui, secondo alcuni studiosi, anche Dante
era affiliato). Terminata la rassegna di nefandezze della sua progenie, il penitente
spiega a Dante che di giorno tutti loro lodano gli esempi di accettazione virtuosa
della povertà, mentre di notte pronunciano esempi di avidità punita: Pigmalione,
fratello di Didone, fece uccidere il cognato Sicheo per cupidigia d'oro; il re Mida,
che dopo aver ottenuto di mutare in oro ciò che toccava, rischiò di morire di fame
e sete, e la sua ingordigia suscita ancora ilarità; Achàn, che nel saccheggio di
Gerico trasgredì agli ordini di Giosuè, e fu condannato a morte; Saffira e suo marito
Ananìa, che ingannarono san Pietro sulla vendita di un podere, e morirono sul colpo;
Eliodoro, amministratore del re Seleuco di Siria, che voleva confiscare il tesoro
del tempio di Gerusalemme e fu abbattuto da un cavallo montato da un cavaliere misterioso;
Polinestore, che uccise Polidoro per sottrargli il tesoro di Troia; Licinio Crasso,
nella cui testa mozza il re dei Parti fece versare oro fuso, per punire la sua avidità.
Infine, precisa che tutti i peccatori in quella cornice parlano come lui, ma che
Dante ha sentito lui solo perché, occasionalmente, parlava a voce più alta. Dante
si sta allontanando con Virgilio, quando un terremoto scuote la montagna del Purgatorio
come quando Latona partorì a Delo Apollo e Diana. Virgilio lo tranquillizza, e si
innalza un grandioso coro "Gloria in excelsis Deo"; poi, gradualmente, tutto torna
alla normalità e i due riprendono il cammino, ma Dante, che non osa chiedere a Virgilio,
continua a domandarsi cosa mai fosse accaduto, mentre avanza timido e pensoso.
Canto XXI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Alla fine del canto precedente, Dante era travagliato dalla curiosità
di sapere cosa avesse causato il boato e il coro che hanno fatto tremare tutta la
montagna del Purgatorio. Così adesso, all'inizio del XXI canto,
che segue Virgilio in silenzio, con la sua inappagata sete di conoscenza. Come Cristo
risorto apparve ai discepoli sulla via di Emmaus, così appare un'ombra dietro a
loro, che li saluta in pace. Formulando il suo saluto di risposta, Virgilio lascia
intendere d'essere salito fin lassù dall'Inferno, suscitando lo stupore dell'anima;
al che, spiega come Dante sia ancora vivo, poiché le parche non hanno ancora finito
di filare dal suo fuso, e come egli sia stato incaricato di accompagnarlo. Poi,
con gran sollievo di Dante, gli chiede la ragione del terremoto che ha scosso il
monte. Allora l'anima spiega che, a partire dai tre gradini su cui è seduto l'angelo
di guardia all'ingresso del Purgatorio, non si produce alcun evento atmosferico
che sia dovuto alle cause che operano sulla Terra, ma ogni fenomeno è dovuto unicamente
alla volontà divina. In questo caso, il terremoto e il coro di tutti i peccatori
segnalano che un'anima ha terminato la sua purificazione ed è pronta a salire nei
cieli. Questo cambiamento è sentito dall'anima stessa, che improvvisamente si sente
invasa da una volontà che non è più frenata dal desiderio di espiazione delle proprie
colpe; e questo è ciò che gli è appena capitato. Dante finalmente ha appagato la
sua curiosità, e Virgilio chiede all'anima chi egli fosse. Si tratta di Publio Papinio
Stazio, un poeta latino dallo stile semplice ed elegante, che erroneamente Dante
fa nascere a Tolosa, ma fu di Napoli, e venne a Roma sotto l'imperatore Tito Flavio
Domiziano. La sua opera principale è la Tebaide, mentre lasciò incompiuta una Achilleide.
Parlando, confessa la sua ammirazione per Virgilio e la sua Eneide, e dice addirittura
che sarebbe stato disposto a passare ancora un anno in Purgatorio, se in cambio
avesse potuto vivere al tempo in cui egli visse. È chiaro che non si è reso conto
del fatto che Virgilio è lì presente: il quale lancia un'occhiata fulminante a Dante,
perché taccia, ma inutilmente: Dante non riesce a trattenere un breve sorriso, che
Stazio subito ha colto, e glie ne chiede la ragione. Dante allora si trova stretto
tra due fuochi: non vuole disobbedire a Virgilio, né essere scortese con Stazio;
per sua fortuna, Virgilio comprende il suo stato d'animo e gli dà il permesso di
parlare. Così Dante spiega a Stazio che il suo accompagnatore è proprio Virgilio,
e che solo per questo stava sorridendo. Stazio si getta istintivamente ai piedi
di Virgilio, che però subito gli ricorda che "tu se' ombra, e ombra vedi". Stazio
si rialza, giustificando con la grandezza dell'ammirazione che nutre per lui la
sua momentanea dimenticanza del loro stato di ombre.
Canto XXII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Praticamente il XXII canto del Purgatorio consiste in un continuo dialogo tra Virgilio
e Stazio, e all'inizio appena si accenna al fatto che un angelo li aveva introdotti
alla scala per la sesta cornice, ed aveva cancellato la quinta "P" dalla fronte
di Dante, ripetendo una frase del discorso della montagna di Gesù: "Beato chi ha
sete di giustizia, perché sarà saziato". Virgilio racconta a Stazio come il poeta
Giovenale, quando lo raggiunse nel limbo, gli disse dell'affetto che Stazio provava
per lui, e che quindi iniziò a contraccambiarlo, per quanto non lo avesse mai visto.
Si permette, in nome di questa loro amicizia, di chiedergli come mai fosse nella
cornice degli avari; e Giovenale spiega che nella stessa cornice si punisce anche
la colpa opposta, l'eccessiva prodigalità, e di questo egli si era macchiato, e
sarebbe finito a sospingere macigni nel quarto girone dell'Inferno, se non si fosse
ravveduto proprio leggendo un passo dell'Eneide, in cui, forzando un po' la traduzione
dal latino, Enea pare deprecare la troppa disinvoltura nello spendere. Virgilio
poi gli chiede come e quando si convertì, poiché non sembrava ancora convertito
quando, ispirato dalla musa Clio, cantava nella Tebaide dell'aspra guerra tra Etèocle
e Polinice, i due figli di Giocasta. Stazio risponde che, dopo averlo convertito
alla poesia, fu sempre Virgilio a convertirlo al Cristianesimo, che aveva illuminato
la via a coloro che lo seguivano, quando scrisse quei versi dell'Ecloga IV che nel
Medioevo erano considerati come una profezia dell'avvento di Cristo. Così Stazio
si fece battezzare prima di scrivere la Tebaide, ma la sua conversione restò clandestina,
e per questo, prima di passare tra gli avari e prodighi, ha trascorso quattrocento
anni nella cornice degli accidiosi. Stazio poi chiede a Virgilio di altri poeti
latini, come Terenzio, Cecilio, Plauto e Vario; e Virgilio conferma che sono tutti
con lui nel limbo, insieme al poeta latino Persio e al greco Omero, che le muse
nutrirono più di ogni altro. Riprendendo il lungo elenco che nel IV canto dell'Inferno
enumerava gli abitanti del limbo, Virgilio aggiunge ancora i poeti greci Euripide,
Antifonte, Simonide e Agatone, nonché alcuni personaggi della Tebaide: Antìgone,
Dèifile, Argìa, Ismène e Ipsìpile, indicata come colei che indicò la fonte Langìa
ai sette eroi che da Argo marciavano contro Tebe; e ci sono anche la figlia di Tiresia
(Manto, che veramente Dante aveva già collocato nel terzo cerchio di Malebolge...),
ed alcuni personaggi dell'Achilleide, come la madre Tètide e la sposa Deidamìa con
le sue sorelle. Nel frattempo, i tre viandanti sono giunti sulla sesta cornice,
e Virgilio propone di percorrerla in senso antiorario, come le precedenti. Arrivano
infine ad un albero che sta in mezzo al cammino, che è simile ad un abete, se non
che i rami si fanno meno folti alla base invece che sulla cima, ed è innaffiato
da un'acqua chiara che cade dal basso verso l'alto. Come si avvicinano, si ode una
voce tra i rami: "Di questo cibo dovrete fare a meno" (dove "avrete caro" sta per
"avrete carestia"), che parafrasa l'ammonizione di Dio ad Adamo riguardo all'albero
del bene e del male; poi elenca esempi della virtù della sobrietà, contrapposta
al peccato della gola che su questa cornice si punisce: Maria alle nozze di Cana
si preoccupò più della riuscita del banchetto, che non di mangiare; le antiche romane
bevevano solo acqua; il profeta Daniele rinunciò ai pasti offerti Nabuccodonosor,
pur di non rinunciare a studiare secondo la tradizione ebraica; nell'età dell'oro,
la fame faceva diventare saporite anche le ghiande e nettare i ruscelli; san Giovanni
Battista nel deserto si nutrì solo di miele selvatico e locuste, ed anche per questo
motivo diventò così glorioso come narrano i vangeli.
Canto XXIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XXIII canto del Purgatorio
inizia con Virgilio che riscuote Dante dal suo fissare
tra le fronde dell'albero come se fosse un cacciatore; e mentre i tre si riavviano,
sopraggiunge da dietro un gruppo d'ombre che piangono e cantano un verso del Miserere,
"signore, schiudimi le labbra" (per proclamare le tue lodi), e come si avvicinano,
Dante è colpito dalla loro estrema magrezza, e li paragona a Erisittone, straziato
dalla fame da Cerere per aver abbattuto un albero a lei sacro, a agli abitanti di
Gerusalemme ridotti alla fame durante l'assedio del 70 d.C., quando Maria di Eleazaro
arrivò addirittura a nutrirsi del figlio. I loro occhi erano così scavati che appariva
come nei lineamenti del viso si possa leggere la parola "OMO" (dove la "M" starebbe
al posto del naso). Una di queste ombre riconosce con stupore Dante, e solo a causa
della sua voce anche Dante lo riconosce: è Forese Donati, un amico con cui Dante
scambiò dei sonetti scherzosi (anche se ingiuriosi). Dante è curioso di sapere come
possano patire la fame, pur essendo anime: e Forese gli spiega che per tutta la
cornice sono logorati dal desiderio di mangiare e bere per il profumo che esce dall'albero
e dalla sua rugiada; ma che la loro benevolenza nell'accogliere la pena è analoga
a quella di Gesù che morì per la nostra salvezza, quando sulla croce mormorò il
nome di Dio. E spiega a Dante che, malgrado si fosse pentito tardi dei suoi peccati,
le preghiere devote di sua moglie Nella, che ancora piange per lui, hanno potuto
intercedere presso Dio, risparmiandogli non solo una lunga sosta nell'antipurgatorio,
ma anche una lunga dimora in qualche cornice sottostante. Parlando della pia moglie,
Forese passa a criticare i costumi delle donne di Firenze, ormai più libertine di
quelle, di cultura più primitiva, che popolano la Barbagia in Sardegna, o quelle
barbare o saracene; e grazie alle doti di preveggenza che condivide con le altre
anime, predice che prima che chi è infante sia diventato adulto, sarà ristabilita
una legge che le costringerà ad essere più pudiche. Poi chiede a Dante come sia
arrivato fin lì: e questi spiega come Virgilio l'abbia accompagnato, ancor vivo,
nell'Inferno ed ora su per il Purgatorio, e come concluderà il suo viaggio in compagnia
di Beatrice, che sicuramente Forese aveva avuto modo di conoscere in vita. Infine,
spiega che l'altro poeta, Stazio, sia l'anima ormai purificata dal peccato, per
cui poco prima ha tremato tutta la montagna.
Canto XXIV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel XXIV canto del Purgatorio
prosegue il dialogo tra Dante e Forese, e pare che Dante concluda una frase lasciata
in sospeso sul finire del canto precedente, alludendo a Stazio che in compagnia
di Virgilio probabilmente sale più lentamente di quanto non farebbe da solo. Chiede
a Forese notizie di sua sorella Piccarda, ed egli risponde che si trova già in Paradiso,
dove Dante poi la incontrerà nel cielo della Luna. Delle altre anime lì presenti,
Forese indica Bonagiunta da Lucca, rimatore toscano della scuola di maniera che
fu superata dal "dolce stil novo"; il papa Martino IV originario di Tours, goloso
di anguille cucinate nella vernaccia; Ubaldino degli Ubaldini della Pila, fratello
del cardinale Ottaviano che insieme a Federico II è citato da Farinata nel X canto
dell'Inferno, nonché padre dell'arcivescovo Ruggieri che il conte Ugolino divora,
sempre nell'Inferno, nel XXXIII canto; l'arcivescovo di Ravenna Bonifacio de'Fieschi;
il Marchese degli Argugliosi, che aveva fama di gran bevitore, e che una volta si
giustificò dicendo di avere sempre sete; ma Dante era rimasto colpito dal primo
di questi personaggi, che gli parve pronunciasse il nome di "Gentucca": così, si
rivolge direttamente a lui, che gli spiega come questa donna, all'epoca ancora ragazza,
farà piacere a Dante la sua città, malgrado sia criticata da molti; ma soprattutto
chiede a Dante se egli fosse proprio il poeta che scrisse le rime che iniziano con "Donne
ch'avete intelletto d'amore". Si tratta della canzone contenuta nella "Vita Nova",
che raccoglie le prime opere di Dante e in cui ricerca un nuovo modo di fare poesia;
come spiega Dante: "Quando sono ispirato dall'amore, trascrivo quello che dentro
mi détta". Allora Bonagiunta confessa la sua ammirazione: "Ora vedo la differenza tra
lo stile troppo formale del notaio Iacopo da Lentini, di Guittone d'Arezzo e mio,
e il dolce stil novo (che per questo verso venne così battezzato) che seguiste voi"
(oltre a Dante, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia, e l'antesignano
Guido Guinizzelli
da Bologna). Poi tace, e si incammina di nuovo con gli altri, che
riprendono ad andare più spediti, evocando la stessa immagine della lunga schiera
di gru che già vedemmo nel V canto dell'Inferno. Si attarda ancora, come a riprendere
fiato, solo Forese, che chiede a Dante quando lo rivedrà. Dante non lo sa, ma certo
non lo spaventa l'idea di morire, rattristato com'è dallo stato desolante di Firenze. E
Forese gli profetizza che colui che ne ha più colpa (e noi sappiamo che allude al
fratello Corso Donati, responsabile dell'esilio di Dante), finirà presto all'Inferno,
trascinato dietro la coda di una bestia; Corso Donati verrà disarcionato
e ucciso nel 1308, ma questi versi evocano sia la pena capitale riservata ai traditori,
sia il diavolo che se lo prenderà. Poi, anche Forese deve correre e raggiungere il
gruppo, come un cavaliere che esce di schiera per avere l'onore del primo scontro;
ma questa circostanza riecheggia anche la corsa di Brunetto Latini alla fine del
XV canto dell'Inferno. Seguendolo con lo sguardo, Dante vede tutti i penitenti riuniti
sotto a un albero simile a quello incontrato in precedenza, che bramano come bambini
quei frutti irraggiungibili, mostrati loro solo per acuirne il desiderio. Poi tutti
ripartono, e quando i tre poeti arrivano all'albero, una voce li invita a proseguire
oltre, dove troveranno l'albero del bene e del male, da cui nacque anche questa
pianta. E cita due esempi di incontinenza, con le loro miserabili conseguenze: quello
dei centauri (figli di Issone e della nuvola Nèfele) che, ubriachi al banchetto
di nozze di Piritoo e Ippodamia, diedero inizio ad una zuffa che si mutò in battaglia,
ma furono sconfitti da Teseo (nell'Inferno sono messi come guardiani dei violenti
nel XII canto); e quello di quei combattenti ebrei a cui, secondo il VII libro dei
Giudici, Gedeone non permise di combattere contro i Madianiti, perché non si mostrarono
sobri nel bere alla fonte Arad (e anche perché, essendo rimasti in pochi, fosse
chiaro che la loro vittoria era voluta da Dio). I pellegrini procedono oltre, fino
ad incontrare l'angelo all'accesso della settima cornice, che li invita a salire, e che brilla
talmente che Dante ne è quasi accecato; e mentre toglie la sesta "P" dalla fronte
di Dante, egli sente un profumo celestiale. Il canto finisce con un ennesimo
richiamo ad un altro passo della stessa commedia, con una voce che parafrasa la stessa
beatitudine citata per gli avari, all'inizio del XXII canto, che in effetti era limitata a
coloro che avevano "sete" di giustizia, e la completa lodando coloro la cui "fame"
non è esaurita del tutto dal cibo, ma ne continuano sempre a provare anche per
il desiderio di giustizia.
Canto XXV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Erano già le due del pomeriggio, mentre i tre pellegrini, con Dante in coda, salivano
incolonnati verso la settima cornice, nel XXV canto del Purgatorio.
Dante si logora per trattenere una domanda, ma Virgilio se ne accorge e lo invita
a parlare. La questione che lo arrovella, è come sia possibile che le anime che
hanno appena veduto possano dimagrire, visto che nessuna anima ha bisogno di mangiare.
Virgilio ricorda a Dante come si consumò Meleagro, figlio di Altea, quando questa,
per vendicare suoi fratelli uccisi proprio da lui, fece ardere il ciocco a cui la
vita di Meleagro era legata, come le avevano detto a suo tempo le Parche; e come
si muova insieme a noi la nostra immagine nello specchio, ad ogni nostro rapido
gesto. Ciò che Virgilio intende dire, è che l'ombra dell'anima assume sempre una
forma corrispondente ai sentimenti che l'anima stessa prova; ma per maggiori dettagli,
incarica Stazio di chiarire le idee a Dante. Stazio si produce in una dissertazione
che si ricollega al concepimento, dandoci così un interessante scorcio di quali
fossero le idee medioevali su questo argomento, secondo Aristotele, Galeno e Alberto
Magno. Spiega che la parte più pura del sangue dell'uomo non viene distribuita nel
corpo, ma resta nel cuore dove assimila una "virtù formativa", il che significa
che riesce a trattenere dentro di sé le informazioni su come il corpo è composto.
Dopo questa trasformazione, scende negli organi genitali, dove si conserva per la
riproduzione. Nel medioevo si pensava che il liquido seminale dell'uomo contenesse
questo tipo di "sangue purissimo", in grado di attivare la sua capacità formativa
nel ventre della donna, dove si mescola con il sangue di lei, che, così come il
sangue dell'uomo è predisposto ad agire, è invece predisposto a sopportare e a fornire
nutrimento. Dapprima si forma un coagulo, al quale poi la "virtù formativa" infonde
vita, che a questo punto è al livello in cui si fermano i vegetali. Ma continuando
il suo sviluppo, diventa come una spugna marina, e inizia a muoversi ed a formare
gli organi, secondo le informazioni raccolte in precedenza nel cuore dell'uomo.
Resta da compiere il passo che separa l'uomo dagli altri animali, e su cui non c'era
una dottrina condivisa: e Stazio allude ad un "savio errante", che viene identificato
con Averroé. La verità, come la rivela Stazio, è che quando il feto ha completato
lo sviluppo del cervello, Dio stesso si volge a lui e gli spira una nuova anima
piena di virtù, che assorbe in sé l'anima provvisoriamente attiva fino a quel momento,
diventando una sola anima, in grado di vivere, provare sensazioni ed essere cosciente
di sé stessa; se questo sembra troppo meraviglioso, è utile considerare come il
calore del sole possa generare il vino, quando si unisce al succo spremuto dall'uva.
Una volta terminata la sua vita, l'anima si separa dalla carne, conservando la natura
umana e divina dell'uomo, con la sua memoria, l'intelligenza e la volontà, mentre
cessano tutte le altre funzioni. Come ci ha spiegato Casella nel II canto del Purgatorio,
mentre le anime dannate sono condotte sulla riva dell'Acheronte, le altre si radunano
alla foce del Tevere, e da questo possono capire il loro destino. Anche senza il
corpo, è la stessa "virtù formativa" che si diffonde nell'aria immediatamente
intorno, riproducendo la stessa forma che prima era espressa con il corpo, in modo
simile a come la luce prende la forma dell'arcobaleno dopo la pioggia. Come la fiamma
segue il fuoco, così questa immagine segue l'anima, e poiché da quella dipende la
sua apparenza, viene chiamata ombra; e gradualmente sviluppa tutti gli organi di
senso, fino alla vista. Grazie a quest'ombra le anime possono parlare, ridere, piangere
ed emettere tutti i sospiri che si possono sentire sulla montagna del Purgatorio;
e poiché questa ombra modifica la sua apparenza in base ai desideri e agli altri
sentimenti dell'anima, così essa, come abbiamo constatato, manifesta anche la fame
attraverso la magrezza dei penitenti. Durante questa lunga spiegazione, i tre viandanti
sono arrivati alla settima cornice, dove dal lato del monte si sprigionano delle
fiamme verso l'esterno, lasciando percorribile solo il ciglio opposto, grazie ad
un vento che soffia dal basso verso l'alto. Come già sulla stretta rampa, i tre
poeti devono continuare a procedere in fila indiana, e Dante sta molto attento a
non avvicinarsi troppo al fuoco dalla parte del monte, né al precipizio dalla parte
della valle. Virgilio lo esorta a vigilare sui suoi passi, tenendo a freno l'occhio,
ed il consiglio è adeguato anche in considerazione del peccato che qui viene scontato,
quella lussuria che, come abbiamo appreso da Virgilio stesso nel XVIII canto, è
la conseguenza del desiderio non adeguatamente tenuto sotto controllo, che nasce
proprio dalla vista. Ma l'attenzione di Dante è presa dal coro che sente uscire
dalle fiamme, l'inno del mattutino del sabato secondo il Breviario Romano, dove
si supplica Dio di rimuovere la nostra lussuria per mezzo del fuoco. Gli spiriti
camminano nel fuoco mentre cantano; al termine dell'inno, gridano esempi di castità
virtuosa: "Virum non cognosco", è la frase con cui Maria giustifica il suo stupore
all'angelo che le annuncia la gravidanza di Gesù; dopo il secondo coro, lodano l'intransigenza
di Diana, che cacciò dal bosco una delle sue ninfe, Èlice, che si era lasciata sedurre
da Giove, cedendo al "veleno di Venere", la lussuria; dopo il terzo, altri esempi
di mogli e mariti che vissero il matrimonio con la giusta virtù. Conclude il poeta
che grazie a questa cura del fuoco, accompagnata da questi continui canti alternati
con gli esempi, i penitenti cicatrizzeranno, alla fine, la piaga del loro peccato.
Canto XXVI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
È ricco di preziosismi questo XXVI canto del Purgatorio,
a partire dalla prima rima in "altro", che non poteva essere che all'inizio o alla
fine del canto, poiché in italiano ha una sola rima in "scaltro", da "scaltrire",
che vale "rendere accorto", mentre le terzine normali necessitano di tre rime. Così
Virgilio esorta Dante a stare attento ai suoi passi, come già ha fatto sul finire
del canto precedente; nel frattempo il sole è vicino al tramonto, e l'ombra di Dante
si allunga sulle fiamme; così alcuni peccatori si incuriosiscono e si avvicinano,
pur senza uscire dal fuoco, e infine uno lo interpella direttamente. Ma prima che
Dante possa rispondere, appare una schiera d'anime venire incontro a quella accanto
alla quale procedono i tre poeti; le due schiere di penitenti si avvicinano fino
a scambiarsi un rapido bacio, per poi allontanarsi di nuovo, come sembrano fare
le formiche quando si incontrano. Appena si voltano, i due gruppi gridano a piena
voce: "Sodoma e Gomorra!" quelli che vanno, mentre quelli che tornano biasimano
Pasìfe, la madre del Minotauro, il mostro mitologico con la testa di toro, che ella
concepì unendosi appunto con un toro, nascosta in una falsa vacca di legno che aveva
fatto costruire per soddisfare la sua lussuria. Come il gruppetto che lo osservava
ritorna vicino a lui, Dante spiega come egli sia effettivamente ancora vivo ed abbia
avuto la grazia di visitare il loro mondo; poi chiede a qualcuno di presentarsi,
e di spiegare chi fossero le anime dell'altra schiera. Dopo aver superato lo stupore,
riprende a parlare la stessa anima di prima, che spiega come l'altra schiera fosse
composta da sodomiti, come fu anche Cesare, che per questo, durante il suo trionfo
per le guerre galliche, si dice che fu apostrofato "regina". Per questo essi, a
loro maggior vergogna, gridano il nome delle città in cui questo vizio era diffuso,
tanto che furono distrutte per lo sdegno di Dio. Il gruppo di cui egli fa parte,
invece, è di lussuriosi "eterosessuali", ma poiché si abbrutirono per il loro smodato
desiderio, a loro vergogna declamano il nome di colei che più rappresenta quanto
questo vizio possa rendere gli uomini abbietti come animali. Poi l'anima si presenta:
è Guido Guinizzelli da Bologna, che Dante considera un precursore di quel "dolce
stil novo" di cui furono maestri, insieme a lui, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e
Cino da Pistoia. Colto dalla sorpresa, solo le fiamme trattengono Dante dal provare
ad abbracciarlo, come fecero i figli di Ipsìpile, quando riconobbero e salvarono
la madre condannata al patibolo dal re Licurgo, secondo la Tebaide di Stazio. Egli
dichiara a Guido la sua ammirazione, in modo tale che questi risponde che il ricordo
di lui non potrà cancellarsi neanche con le acque del fiume Lete; Dante spiega di
giudicare immortali le sue poesie, ma Guido indica un altra anima, che reputa un
poeta migliore di sé e di "quel di Lemosì", cioè il trovatore Giraut de Bornelh
di Limoges, malgrado quest'ultimo sia preferito da molti ascoltatori superficiali,
come fu preferito anche Guittone d'Arezzo, prima che il gruppo dei poeti stilnovisti
non fosse infine giudicato migliore da tutti. Poi Guinizzelli chiede a Dante di
recitare un "Padre Nostro" per lui, una volta nei cieli, "quanto bisogna", ossia
senza gli ultimi versi "non ci indurre in tentazione", poiché ormai in Purgatorio
i penitenti sono immuni dal desiderio di peccare. Infine si ritira tra le fiamme,
e sparisce come un pesce che si immerge nell'acqua, lasciando il posto all'anima
del poeta che aveva indicato a Dante. Si tratta di Arnaut Daniel, il trovatore di
Provenza in lingua d'oc della seconda metà del secolo XII, famoso per le rime preziose
delle sue canzoni e delle sue poesie d'amore. Caso unico nella commedia, le sue
parole sono riportate nella lingua originaria, un significativo omaggio di Dante
a questo poeta, come del resto ricco di rime preziose è tutto il canto. "Tanto gradisco
la vostra cortese domanda, che non posso né voglio nascondermi a voi. Io sono Arnaut,
che piango e vado cantando. Contrito rivedo la mia follia passata, e lieto vedo
la gioia che mi aspetta dinanzi. Ora vi prego, per quella virtù che vi guida al
sommo di queste scale, di ricordarvi a suo tempo del mio dolore". E detto questo,
scompare di nuovo nel fuoco che li purifica.
Canto XXVII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Quando a Gerusalemme sorge il sole, in Spagna è mezzanotte, e in India è mezzogiorno,
sulla montagna del Purgatorio si fa sera, all'inizio di questo XXVII canto,
e appare ai tre pellegrini l'angelo della castità che canta "Beati i puri di cuore"
(perché vedranno Dio). Ma aggiunge che, per proseguire, è necessario passare attraverso
il fuoco purificatore, seguendo il canto che farà da guida. A tali parole, Dante
impallidisce come un morto, e si rannicchia dietro le braccia incrociate, ricordando
i condannati al rogo che aveva avuto occasione di vedere. Virgilio prova a rassicurarlo,
dicendo che queste fiamme bruciano, ma non uccidono; e di averlo già guidato verso
la salvezza anche quando furono in groppa a Gerione, nel XVII canto dell'Inferno,
e dunque di avere fiducia anche ora, che sono così vicini a Dio; lo invita a provare
il fuoco con un lembo della veste, per vedere come non venga distrutto dalle fiamme.
Ma Dante non
riesce a vincere la paura; così Virgilio lo incalza: "Tra te e Beatrice è rimasto
solo questo muro". Al nome di Beatrice, Dante ritrova il coraggio e la
forza, come al nome di
Tisbe ritrovò la forza anche il babilonese Piramo, che, credendo
morta la sua amata, si diede
la morte, ed il cui sangue fece diventare rosso scuro le bacche del gelso; Tisbe
lo ritrovò morente, e richiamandolo gli diede la forza per un ultimo sguardo; infine
anche lei si uccise sul corpo di lui, causando un lutto comune alle due famiglie
che ostacolavano il loro amore (questa storia narrata nelle metamorfosi di Ovidio
è la prima di una lunga serie di variazioni sul tema). Così, Dante trova il coraggio
di seguire Virgilio nel fuoco, mentre Stazio, che fino ad ora era rimasto tra i
due, chiude la fila. Il calore è tale che il vetro bollente sarebbe un refrigerio
al confronto; ma Virgilio continua a incoraggiare
Dante richiamando il nome di Beatrice, mentre un canto
li guida fuori delle fiamme: "Venite, benedetti dal Padre mio"; così, secondo il vangelo di Matteo,
Cristo si rivolgerà alle anime elette, nel giorno del Giudizio. L'angelo che canta
è talmente
luminoso che Dante non riesce a vederlo, mentre li invita ad affrettarsi su per
l'ultima rampa di scale, prima che il sole tramonti. La scala sale verso est, ma
dopo pochi gradini l'ombra della sera li coglie, e poiché nel Purgatorio sui può
procedere solo durante il giorno, i tre si fermano sul proprio gradino, ma Dante
si sente tranquillo come una capretta satolla tra due pastori che la sorvegliano;
e trova sonno guardando le stelle che appaiono più luminose e grandi del solito.
Quando la stella del mattino, Venere Citerea, iniziava a mandare i suoi raggi sulla
montagna del Purgatorio, appare in sogno a Dante una bella donna che canta e raccoglie
fiori; e dice di essere Lia, la sorella di Rachele che Giacobbe dovette prendere
come prima moglie, per poter poi sposare la sorella minore, come gli impose il loro
padre Làbano. Lei, che crea ghirlande per farsene ornamento, rappresenta la bellezza
della vita operosa, mentre la sorella Rachele, che si rimira gli occhi davanti allo
specchio, la bellezza della vita contemplativa. Insieme rappresentano le due strade
che conducono alla felicità, secondo quanto Dante scrive anche nella Monarchia:
quella della vita terrena, che si persegue con le proprie virtù e seguendo l'insegnamento
della filosofia, e quella della vita eterna, a cui si accede solo con la grazia
divina
e gli insegnamenti spirituali. Si possono associare anche
al paradiso terrestre, in cui stiamo per entrare, e dove siamo giunti con la guida
di Virgilio, che rappresenta la razionalità, e al Paradiso vero e proprio, da cui
ci separano solo sei canti,
che visiteremo sotto la guida di Beatrice, che simboleggia
l'amore spirituale. Al risveglio, Virgilio promette a Dante il prossimo appagamento
del desiderio di felicità che tanta ansia provoca negli uomini; e infonde a Dante
un'energia e una volontà che riecheggiano il "folle volo" che Ulisse ci ha raccontato
nel XXVI dell'Inferno. Giunto all'ultimo gradino, Virgilio si rivolge al discepolo
e gli parla solennemente: "Sei passato con me attraverso l'Inferno e il Purgatorio,
ma ormai non posso guidarti oltre. Non hai più bisogno del mio consiglio, non ci
sono più ostacoli, e puoi seguire liberamente il tuo volere.Vedi il sole che splende
davanti a te, i fiori e le piante che qui nascono spontaneamente; mentre ti sta
raggiungendo Beatrice, puoi sederti o camminare dove vuoi, senza più chiedere a
me alcun permesso; la tua volontà è libera, giusta e integra, e sarebbe una colpa
non seguirla: per questo, io ti proclamo signore e padrone di te stesso".
È la consacrazione del raggiungimento della piena
maturità di Dante, e di ogni uomo che come lui, seguendo un cammino personale di
maturazione, ha imparato a guidare con sicurezza sé stesso, superando le proprie
paure e le proprie debolezze. Sono le
ultime parole di Virgilio in tutto il poema.
Canto XXVIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel XXVIII canto del Purgatorio Dante si incammina nel boschetto profumato alla luce del mattino,
dove una lieve brezza spira da oriente, facendo frusciare le piante, come se accompagnassero
il canto degli uccellini che le popolano, e che a Dante ricorda la pineta di Classe,
che aveva già avuto modo di vedere e dove tornerà al termine del suo esilio. Seguito
dai due poeti che lo osservano silenziosi, egli si inoltra fino alla riva di un
piccolo fiume che gli sbarra il cammino; le sue acque sono limpidissime, per quanto
scorrano all'ombra del bosco. Alza lo sguardo tra i rami fioriti che sono oltre
il fiume, e vede una giovane donna che canta e raccoglie i fiori che riempiono il
prato. È esattamente la stessa immagine di Lia che Dante ha sognato nella notte,
e che rappresenta la gioia della vita attiva; solo più tardi nel poema sapremo che
il nome di questa bella donna è Matelda. Dante, che vede nella sua radiosità il
segno dell'amore che la pervade, la prega di avvicinarsi, perché possa intendere
le parole del suo canto. La sua bellezza gli ricorda Proserpina, quando fu rapita
da Plutone, che la sottrasse alla madre Cerere mentre raccoglieva i fiori, causando
così l'alternarsi delle stagioni in luogo della primavera perenne che esisteva fino
a quel momento. Con la grazia di una ballerina che si muove a piccoli passi, Matelda
si avvicina tra i fiori rossi e gialli, tenendo gli occhi bassi come per pudore,
continuando a cantare così che Dante inizia a capire le parole del suo canto. Giunta
vicino alla riva, alza lo sguardo verso Dante, che rimane colpito dalla sua luminosità,
maggiore di quella che ebbero gli occhi di Venere, quando fu trafitta per errore
dalla punta di una freccia del figlio Cupido, che causò il suo famoso amore per
il pastore Adone. Matelda sorride e continua ad intrecciare i fiori in piedi sulla
riva opposta del fiume, largo tre passi; Dante lo paragona all'Ellesponto, dove
Serse fu sconfitto dai greci, diventando così un simbolo di orgoglio punito, e che
Lenadro, per amare la bella Ero, attraversava a nuoto tutte le notti, tra Abìdo
e Sesto, e che per questo odiava quel braccio di mare che li separava. Matelda spiega
ai visitatori che la sua gioia può essere compresa ricordando il salmo che dice
"Delectasti...". Si tratta del Salmo 91 (92 secondo la numerazione ebraica), il
canto per il giorno del sabato: "Poiché mi rallegri, Signore, con le tue meraviglie,
esulto per l'opera delle tue mani". Poi invita Dante, se vuole, a chiedere altro:
ed egli domanda la ragione dello scorrere dell'acqua e del vento, dato che, in base
a quanto gli ha detto Stazio nel XXI canto, il Purgatorio non è influenzato dagli
stessi fenomeni atmosferici della Terra. Matelda conferma che il Paradiso terrestre
è stato creato da Dio in modo che l'uomo, finché lo ha abitato, non fosse soggetto
alle intemperie; perciò la brezza non è originata dalle differenze di temperatura,
ma dalla rotazione del primo cielo che è appena sopra la cima del monte; ed aggiunge
che, grazie ad essa, l'aria si impregna dei semi e dei pollini delle piante del
Paradiso terrestre, che ricadono poi nell'atmosfera della Terra, generando tutte
le specie vegetali, e spiegando così come a volte accada che nascano piante anche
in terreni deserti. Anche l'acqua del fiume viene da una fonte non alimentata dalla
condensazione del vapore, ma dalla volontà di Dio, e da essa nascono due fiumi:
questo è il Lete, che permette di dimenticare i propri peccati, e l'altro è l'Eunoè,
che permette di ricordare le buone azioni; in essi non scorre acqua, ma nèttare.
È il caso di notare che questo fiume "Eunoè" non sembra essere nominato in alcuna
opera letteraria precedente. Matelda aggiunge ancora che forse, gli antichi poeti
che cantarono l'età dell'oro, ebbero ispirazione da un ancestrale ricordo di questo
luogo. Dante si volta verso i due poeti che lo seguono, ed entrambi sorridono compiaciuti.
Poi si volta di nuovo verso Matelda.
Canto XXIX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XXIX canto del Purgatorio inizia con Matelda che ha finito di parlare e ricomincia
a cantare il salmo 30 (31 secondo la numerazione ebraica): "Beati coloro i cui peccati
sono perdonati", e si incammina verso la sorgente del fiume, mentre Dante la segue adeguandosi al suo
passo. Poco più oltre, il corso d'acqua che li separa si volge di nuovo
verso est e poco dopo Matelda richiama l'attenzione di Dante: in
quel momento, la foresta si illumina come per un lampo, che però non svanisce e
continua a splendere; e si ode una melodia che si avvicina. Dante rimpiange che
la disobbedienza d'Eva abbia tolto agli uomini il godimento di quelle bellezze; poi vede che la luce viene da dentro il bosco, mentre inizia a distinguere un
canto. Dopo aver invocato l'aiuto delle Muse, che risiedono sul Parnaso e la vicina
vetta Elicona, e in particolare alla musa Urania, ispiratrice della poesia soprannaturale,
Dante racconta che gli parve di vedere in lontananza sette alberi d'oro; ma quando
fu abbastanza vicino, riconobbe che erano candelabri, mentre intese che le voci
cantavano "Osanna". L'insieme
dei candelabri fiammeggiava maestosamente;essi
simboleggiano i sette doni dello Spirito Santo: sapienza, intelletto, consiglio,
fortezza, scienza, pietà, timor di Dio. Dante, ammirato, si volge a Virgilio, che
gli risponde con uno sguardo non meno stupito. I candelabri avanzano più lenti di
quanto facciano le spose nei cortei nunziali; e Matelda invita Dante a guardare
meglio cosa li segue. Dante vede un corteo di persone vestite di bianco, e si accosta
alla riva del fiume per vedere meglio. Le fiamme dei candelabri lasciano delle scie
in cielo con i colori dell'arcobaleno, che sono gli stessi che appaiono anche nell'alone della Luna,
che Dante chiama "Delia",
che sta per "Diana", che è la dea che tradizionalmente le è associata.
Continua a raccontare che sotto un così bel cielo venivano dodici coppie di vecchi
coronati di fiordalisi, inneggianti a Maria, che rappresentano i ventiquattro libri
dell'Antico Testamento. Li seguono quattro animali, ognuno con sei ali piene di
occhi, vigili come erano gli occhi di Argo, il guardiano della ninfa Io, che fu ucciso
da Mercurio; essi rappresentano i quattro Vangeli, e Dante, scusandosi di non poterli descrivere
dettagliatamente, rimanda al libro di Ezechiele e all'Apocalisse di Giovanni.(da cui ha
preso il numero delle sei ali), dove sono citati; si tratta degli animali che simboleggiano i quattro
evangelisti: in realtà, il simbolo di Matteo è un angelo dalla parvenza umana; quello
di Luca è un bue, un leone per San Marco e un'aquila
per San Giovanni. In mezzo a
loro, avanza un carro a due ruote, trainato da un grifone con le ali altissime, che
separano nel cielo la scia centrale dalle tre a destra
e dalle tre a sinistra. Le ali
e la testa sono dorate, il corpo e le zampe sono
bianche e miste di rosso; rappresenta
la doppia natura di Cristo, divina ed umana, mentre il carro rappresenta la Chiesa romana,
ed è più bello di quello su cui trionfarono
Scipione l'Africano e Cesare Augusto, ed anche dello stesso carro del Sole, che
Giove bruciò, per le implorazioni della Terra, ustionata dal maldestro Fetonte,
figlio di Elio (il Sole), che aveva voluto guidarlo. Sul lato destro, danzano tre
donne che rappresentano le tre virtù teologali: una rossa, che rappresenta
la Pietà, una verde, la Speranza, e una bianca, la Fede. A sinistra, altre quattro
donne rappresentano le quattro virù cardinali: Giustizia, Fortezza, Temperanza e
Prudenza, che ha tre occhi per i suoi tre requisiti: buona memoria del passato,
buona conoscenza del presente, e buona previdenza per il futuro. A chiudere il corteo,
altri sette vecchi: la prima coppia è composta da uno vestito da medico, come Ippocrate
che la natura creò per il bene degli uomini, e che rappresenta gli Atti di San Luca;
l'altro è armato di spada, e rappresenta le epistole di San Paolo; i quattro che
seguono rappresentano i libri delle Epistole dei santi Pietro, Giovanni, Giacomo
e Giuda. Chiude il corteo un vecchio che pare dormire, assorto nelle sue penetranti
visioni, che rappresenta il libro dell'Apocalisse di Giovanni. Anche questi sono
vestiti di bianco come gli altri vecchi, ma in capo hanno corone di rose e fiori
rossi. Quando il carro arriva nel punto più vicino a Dante, si ode un gran tuono,
e tutta la processione si ferma come ad un comando perentorio.
Canto XXX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XXX canto del Purgatorio
è uno dei più importanti della Divina Commedia, perché Virgilio silenziosamente
sparisce ed appare Beatrice, che guiderà Dante per il Paradiso. Quando si fermano le sette candele che rappresentano
i doni dello Spirito Santo, e che guidano il corteo come la costellazione della stella
polare guida i naviganti, tutti si rivolgono verso il carro, e uno dei vecchi, che
rappresenta il libro della Bibbia attribuito a Salomone, cita l'invocazione dello
sposo nel Cantico dei Cantici: "Vieni dal Libano, o mia sposa...", che tradizionalmente
è interpretata come la Chiesa Cristiana. Alla
sua voce, con lo stesso impeto che avranno i beati quando i loro corpi risorgeranno
nel giorno del Giudizio, dal carro si levano cento angeli, cantando "Benedetto colui
che viene!", come fu salutato Gesù al suo ingresso a Gerusalemme, e "gettate gigli
a piene mani!", citazione dall'Eneide per la celebrazione di Claudio Marcello, promettente
nipote di Augusto, purtroppo destinato a una morte prematura. Si preannuncia un
arrivo importante, ed infatti Dante prosegue ricordando come il sole a volte sorga
nel cielo sereno, temperato appena dalle nuvole, che così permettono di ammirarlo
a lungo: allo stesso modo, dentro una nuvola di fiori, appare una donna cinta, con
rami d'olivo, di un velo bianco (la fede), con un manto verde (la speranza), sopra
il vestito rosso (la carità). Malgrado gli anni trascorsi, Dante intuisce di chi
si tratta, e ancor prima di riconoscerla con la vista, è scosso dalla stessa emozione
che provò la prima volta che vide Beatrice, ancora bambino. Travolto dall'emozione,
cerca Virgilio per dirgli: "Conosco i segni dell'antica fiamma", come nell'Eneide
dice Didone: ma Virgilio se n'è andato, ci ha privati della sua presenza. Còlto
dallo smarrimento, Dante piange, nonostante tutte le bellezze del Paradiso Terrestre;
ma Beatrice lo rimprovera, chiamandolo per nome, che risuona qui per l'unica volta
in tutta la Divina Commedia: "Dante, non piangere per Virgilio, perché hai ben altri
motivi per farlo". La sua autorità traspare anche dal velo che ancora porta, e continua:
"Guardami bene! Sì, sono Beatrice. Come hai pensato di essere degno di salire fino
a qui, non sapevi che qui gli uomini sono felici?" (mentre invece Dante sta piangendo).
Dante abbassa gli occhi, si specchia nel fiume e subito li fissa nell'erba davanti
ai suoi piedi, tanta è la vergogna provata guardandosi. Allora gli angeli cantano
il coro del salmo 30 (31 nella numerazione ebraica): "In te, Domine, speravi..."
fino a "pedes meos", in cui si canta la fiducia nella protezione d Dio, che guida
i nostri passi, come ha guidato il pellegrino Dante, che interpreta il coro come
un'intercessione in suo favore; e come i ghiacci dell'Italia stretta dai venti del
nord (della Schiavonia) si sciolgono come cera quando soffia il vento del sud (dove
le ombre si accorciano), così si scioglie in un nuovo pianto anche la commozione
di Dante. Ma Beatrice continua: "Anche se voi angeli sapete ogni cosa terrena, le
mie parole devono rendere il suo dolore uguale alla sua colpa: egli è nato con grandi
doti, sia per le sue stelle, che per la grazia imperscrutabile del cielo, e poteva
avere successo in ogni campo; ma come il terreno fertile, se non è coltivato, si
riempie di erbacce, così anche lui, finché ho potuto guidarlo ha seguito 'la diritta
via', ma quando passai a miglior vita, invece di amarmi di più, si perse seguendo
false illusioni, senza badare alle ispirazioni con le quali lo richiamavo nei sogni.
Così l'unica via è stata quella di fargli visitare il regno dei morti, e per questo,
piangendo, ho chiesto aiuto a Virgilio, che l'ha condotto fino a qui. Non sarebbe
fatta la giustizia di Dio, se ora passasse il Lete senza piangere di pentimento".
Canto XXXI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
"O tu che se' di là dal fiume sacro" è l'incipit del XXXI canto del Purgatorio,
dove Beatrice si rivolge direttamente a Dante, seguitando senza pause l'arringa
che fino ad ora era rivolta agli angeli, ed invitandolo a confermare le sue accuse.
Dante è così confuso che non riesce a parlare; allora lei incalza, poiché la memoria
dei suoi peccati non è stata ancora cancellata dall'acqua del fiume Lete che scorre
in mezzo a loro. Dante riesce appena ad accennare un "sì" che non si sarebbe inteso
senza vedergli la bocca; e come una balestra rotta dalla troppa tensione, scoppia
a piangere, vergognoso e pentito. Beatrice continua: "Mentre durava ancora il tuo
amore per me, che ti guidava al miglior bene che si possa desiderare, quali fossati
o quali catene ti sbarrarono il passo, da farti perdere la speranza di procedere?
Quali vantaggi vedesti negli altri beni, che ti indurono a corteggiarli?". Notevoli,
in questi versi, le rime che richiamano esplicitamente il dialogo con Francesca
nel V canto dell'Inferno. Piangendo, Dante confessa le sue debolezze: "Quando non
ci fu più il tuo viso a guidarmi, seguii le cose che rimasero presenti, con i loro
falsi piaceri." Sarebbe inutile nascondere a Dio le proprie colpe, perché già le
conosce; ma la sua giustizia si stempera con la confessione. Ma la morte di Beatrice
avrebbe dovuto insegnare a Dante come tutte le bellezze mortali siano effimere,
e indurlo a perseguire solo le bellezze celesti. Un uccellino appena nato è senza
esperienza, ma per quelli cresciuti, si tendono invano le reti e si tirano a vuoto
le frecce. Dante ascolta con la testa bassa, e Beatrice lo invita ad alzare "la
barba", cioè il mento di un uomo già maturo, e che quindi dovrebbe avere più senno.
Dante lo alza con più fatica di quanta sia necessaria alla tramontana o al "vento
di Iarba" (che fu il re dei Getuli respinto da Didone, e quindi si tratta del vento
di libeccio), per sradicare una quercia; guarda verso Beatrice, e vede che gli angeli
hanno smesso di gettare i fiori, così che può distinguere il suo volto, fisso sul
grifone fermo davanti al carro. Ancora velata e di là dal fiume, gli sembra più
bella di com'era in vita, come quando era viva pareva più bella delle altre donne;
il pentimento diventa così forte, da fargli odiare le cose che più amò quando ella
gli venne a mancare; e il rimorso è tale da fargli perdere i sensi. Dante si risveglia
immerso fino alla gola nel fiume Lete, sostenuto da Matelda che invece resta in
superficie leggera come una barchetta, e lo avvicina all'altra riva, mentre Dante
sente cantare il salmo 50 (o 51 nella numerazione ebraica), il "Miserere", nel quale
si ringrazia Dio per l'aspersione e il lavacro che rende mondi dai peccati, con
un coro così dolce che non riuscirebbe a descriverlo. Matelda lo immerge completamente
sott'acqua, in modo che Dante beva l'acqua del Lete, che permette di dimenticare
i peccati commessi; poi lo trae a riva, dove lo consegna alle quattro danzatrici
che rappresentano le virtù cardinali che si acquistano attraverso il battesimo,
e sono al servizio della Verità Rivelata, rappresentata da Beatrice. Esse lo circondano
cantando, e lo portano davanti al grifone; da qui, Dante può vedere la bellezza
degli occhi di Beatrice, verdi come lo smeraldo, nei quali si riflette l'immagine
del grifone che ella sta fissando; ed è sorpreso nel vedere come l'immagine si trasformi
continuamente in leone e in aquila, mentre il grifone mostra entrambe le nature
mescolate. Poi viene circondato dalle tre danzatrici che rappresentano le virtù
teologali, che invitano Beatrice a rivolgere il suo sguardo a Dante, e di permettergli
di vedere la sua bocca, ancora velata. Dante la guarda di nuovo, ed il canto finisce
con una sublime invocazione: O splendore di viva luce eterna, qual è il poeta che
fu così ispirato dalla sua arte, da non sembrare del tutto confuso, tentando di
rendere la tua bellezza, come apparve nel cielo che la imitava armoniosamente, quando
ti rivelasti nell'aria aperta?
Canto XXXII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XXXII canto del Purgatorio
è il canto più lungo di tutta la Divina Commedia, e senz'altro anche uno dei più
complessi, con molti simbolismi ancora oggetto di dibattito. Il canto si schiude
con il sorriso di Beatrice, che finalmente si rivela dopo due canti piuttosto severi;
Dante, che non ha più visto il suo sorriso da quando lei era in vita, ormai dieci anni prima,
si perde in quello fino a che non lo richiamano le tre virtù teologali, con un misto
di rimprovero ma anche di cura, poiché infatti Dante resta abbagliato per alcuni
secondi. Poi vede il corteo ricominciare a muoversi tornando indietro, verso il
sole del mattino, con le grazie allineate alle due ruote, ed il grifone che muove
il carro senza alcuno scossone. Dante si accoda alla ruota destra, insieme a Matelda
e a Stazio, che evidentemente ha già passato anche lui il Lete; e proseguono nella
selva, disabitata per colpa di Eva, accompagnati da un coro angelico. Dopo lo spazio
che potrebbero coprire tre frecce successive, Beatrice scende dal carro mentre tutti
mormorano "Adamo" e si dispongono intorno ad un albero spoglio, ma con i rami che
si dilatano sempre di più mentre salgono verso l'alto, così alto che anche in India,
dove si trovano alberi molto grandi, susciterebbe ammirazione.
È il famoso albero del bene e del male, a modello del quale sono fatti anche gli
alberi già incontrati sulla cornice dei golosi. Tutti gridano al grifone: "Beato te, che non cogli niente da questo
albero che sembra dolce, ma fa stare male chi ne assaggia"; e il grifone parla:
"Così si conserva il fondamento della giustizia"; poi prende il timone del carro
che ha trainato fino a lì, e lo lega all'albero con un ramo dell'albero stesso.
In pochi istanti, come fioriscono le nostre piante prima che il sole esca dalla
costellazione dell'Ariete, in cui entra dopo quella dei Pesci, così i rami si coprirono
di fiori dai colori compresi tra quello della rosa e quello delle viole. Allora si
leva un canto che tra noi non è conosciuto, e che Dante non riesce a comprendere;
e senza accorgersene, si addormenta, come Argo, il mostro
dai cento occhi che faceva la guardia a Io, fu addormentato da Mercurio, che poi
lo uccise, raccontandogli
la storia della ninfa Siringa e di Pan che voleva sedurla;
ma nessuno può descrivere come ci si addormenta, così Dante riprende da quando
Matelda lo sveglia con le stesse parole "Alzati: che fai?" che si sentirono rivolgere
da Gesù gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo, che lo avevano seguito sul monte
Tabor, dove fece loro intravedere la vita celeste, e assistere al suo dialogo con
Mosè e il profeta Elia, circondati da una nube di luce; le stesse parole che Gesù
pronunciò per risuscitare Lazzaro e la figlia di Giairo. Il grifone, il corteo di anziani
e i quattro animali che erano ai lati del carro se ne sono volati in cielo cantando
cori dolci e profondi; Stazio non è nominato, ma sapremo in seguito che si trova
ancora con Dante; Beatrice è rimasta seduta alle radici dell'albero, circondata
dalle sette virtù, che reggono i candelabri che non possono essere spenti da alcun
vento. Lei gli annuncia che tra poco potranno ascendere all'eterna città di Cristo,
ma prima è bene che Dante assista a ciò che ora avverrà, per scriverne una volta
tornato alla vita terrena. In questi versi, Beatrice sancisce ufficialmente la funzione
di indottrinamento che Dante intendeva adempiere scrivendo la Divina Commedia. Obbedendo
a lei, Dante volge la sua attenzione al carro, rimasto legato all'albero del bene
e del male. Ciò che segue è una visione allegorica della storia della Chiesa cristiana,
che il carro simboleggia, e ricorda i versi del XIX canto dell'Inferno, dove ugualmente
si biasima la corruzione della Chiesa romana. L'albero a cui il carro è legato,
rappresenta la legge divina che Adamo ed Eva trasgredirono, mangiando il frutto
proibito. Rapida come un fulmine, piomba dal cielo un'aquila, simbolo del potere
di Roma, che spezza i rami fioriti dell'albero e fa oscillare il carro come una
nave in tempesta, simboleggiando le persecuzioni subite dai primi cristiani; poi
appare una volpe magra e veloce, che tenta di annidarsi sotto il carro, ma viene
cacciata da Beatrice, che rappresenta la teologia che smaschera le eresie; torna
di nuovo l'aquila, ma questa volta lascia sul carro alcune penne, e dal cielo si
ode la voce di San Pietro: "O navicella mia, come sei caricata male!", che è sconsolato
nel vedere la sua Chiesa corrotta dal possesso di beni terreni che tradizionalmente
iniziano con la donazione di Costantino, anche se Dante riconosce che le sue intenzioni
erano benevole. Da sotto il carro, si apre una voragine da cui esce un drago, che
colpisce il carro con la sua coda e poi si dilegua serpeggiando nella selva; esso
rappresenta gli scismi che hanno indebolito la Chiesa. Dopo di ciò, come gramigna
in un campo fertile, le piume lasciate dall'aquila si moltiplicano fino a ricoprire
tutto il carro, come la corruzione si propagò nella Chiesa, e dal timone spuntano
tre teste con due corna, mentre dai quattro angoli del carro ne sbucarono altre
quattro con un solo corno; le sette teste simboleggiano i sette vizi capitali, ed
insieme alle dieci corna richiamano la bestia dell'Apocalisse. Infine sul carro-mostro
appare una meretrice seduta che rappresenta la curia romana, che adocchia avidamente
intorno; mentre accanto a lei appare un gigante che la controlla, che rappresenta
il re di Francia, probabilmente Filippo il Bello, a cui il papato fu sottomesso;
essi si baciano lascivamente, ma lei lancia un'occhiata maliziosa a Dante, e allora
il gigante, indispettito, la colpisce crudelmente, con allusione all'umiliazione
dello schiaffo di Anagni, che Bonifacio VIII subì nel 1303, e dunque qui ha il ruolo
di una premonizione, come la successiva fuga dei due personaggi con il carro-mostro
sciolto dall'albero, che allude alla cattività avignonese, che iniziò con Clemente
V nel 1309; e Dante li segue con gli occhi finché non spariscono in mezzo alla selva.
Canto XXXIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Quanto si era chiuso in modo crudo il canto precedente, tanto il XXXIII canto del
Purgatorio si apre liricamente, con una citazione del salmo 78 (o 79 nella numerazione ebraica)
della lamentazione per la distruzione del tempio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi,
cantato dalle sette grazie, mentre Beatrice si addolora poco meno di Maria ai piedi
della croce. Poi si alza e pronuncia un'altra citazione biblica, dal vangelo di
Giovanni, usando le parole con cui Gesù annunciò ai discepoli la
sua prossima morte e la sua successiva
resurrezione: "Un poco, e non mi vedrete; un altro poco, e mi vedrete di nuovo";
In questo caso, Beatrice si riferisce alla Chiesa, simboleggiata dal carro che alla
fine del canto precedente si è trasformato in un mostro ed è stato portato via dal feroce gigante, insieme alla prostituta
che lo sormontava. Beatrice riprende il cammino, seguita dalle grazie, Matelda, Dante e Stazio, ed invita
Dante a starle accanto e a non indugiare a interrogarla. Dante è ancora un po' intimidito,
così lei comincia a spiegargli come la Chiesa, oggi governata dalla corrotta curia romana
ed assoggettata alla monarchia francese, sarà presto risanata da un prossimo
imperatore che ristabilità la divisione tra potere spirituale e potere temporale;
questo personaggio richiama il "veltro" che Virgilio nominò in apertura dell'Inferno,
e che viene generalmente identificato con Arrigo VII, su cui Dante nutriva molte
speranze; il fatto che Beatrice si riferisca a lui come un "cinquecento diece e
cinque" non è chiaro, ma si può notare che il numero romano "DXV" è l'anagramma di "DVX",
ossia imperatore. Beatrice continua assicurando Dante che, anche se le sue parole
sembrano oscure come gli enigmi della Sfinge, il famoso mostro tebano sconfitto
da Edipo, o i responsi sibillini di Temi, che presiedeva all'oracolo di Delfi, e
che per vendicare la Sfinge, scatenò una volpe famelica che devastò i campi e il bestiame
della Beozia, tra poco tempo le parole di Beatrice saranno chiarite dai fatti stessi, che avranno
il ruolo di "Naiadi", e qui probabilmente Dante, rifacendosi alle Metamorfosi di Ovidio, equivoca "Naiadi" con "Laiade",
cioè Edipo, figlio di Laio; Beatrice invita Dante a ricordare le sue parole, almeno
sommariamente, come monito per i vivi, e gli chiede di riferire come abbia visto mal ridotta la
pianta di Dio, per cui Adamo fu dannato ed aspettò per cinquemila anni la venuta di Cristo, che
lo perdonò; e Dante capirebbe perché essa
sia così alta, e perché si apra verso l'alto, se la sua mente non fosse incrostata da pensieri inutili,
come se fosse bagnata dalle acque calcaree dell'Elsa, ed il piacere che egli ne ricava non velasse la sua conoscenza
come il sangue di Piramo tinse il frutto del gelso, che Dante ha già citato nel XXVII canto. Dante promette
che riporterà fedelmentele sue parole, ma chiede perché a volte gli appaiano così
difficili da comprendere. Beatrice spiega che la conoscenza dottrinale di Dante
si discosta dalla conoscenza divina quanto la Terra dal cielo più alto, che gira
più velocemente. Per comprendere i nuovi insegnamenti, la ragione e il sapere non
bastano più, e simbolicamente si sono fermati insieme a Virgilio; le verità della
Teologia, simboleggiata da Beatrice, sono accessibili solo tramite un'esperienza
vissuta in prima persona, a cui si accede solo tramite la grazia divina. Dante non
ricorda di essersi mai allontanato dai consigi di Beatrice, e lei sorride, ricordandogli
che ha bevuto l'acqua del Lete, che cancella la memoria dei peccati, e dunque, il
fatto che lo abbia dimenticato testimonia che il suo allontanarsi da lei fu un peccato;
ma per farsi capire da lui, parlerà in seguito in modo più esplicito. Nel frattempo,
si è fatto mezzogiorno e sono giunti ad una doppia sorgente, simile a quella del
Tigri e dell'Eufrate, e Dante chiede che fonte sia. Beatrice per la prima volta
nomina Matelda, invitandola a spiegarglielo; lei precisa che veramente glielo ha
già detto, come in effetti ha fatto alla fine del XXVIII canto; comunque, Beatrice
la prega di ripeterlo, mentre lo conduce all'Eunoè, che ravviva la memoria delle
buone azioni commesse, e Matelda accetta volentieri, invitando anche Stazio a seguirla.
A questo punto, Dante si vorrebbe dilungare raccontando del dolce sapore dell'acqua
dell'Eunoè; ma si scusa, perché lo spazio predisposto per il canto, e per tutta
la cantica del Purgatorio, è finito; e così conclude raccontando che ritornò dalla
fonte rinnovato come le piante ad ogni primavera, purificato e pronto a salire verso
le stelle.
Paradiso
Canto I
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il primo canto del Paradiso
si apre con il prologo in cui Dante si augura di essere in grado di raccontare quel che ha visto nel cielo
in cui risplende maggiormente la gloria di "colui che tutto move". La tradizionale invocazione alle
muse, che ispirano la poesia di argomento umano, stavolta è diretta anche e soprattutto
ad Apollo, che tutela la poesia di argomento divino; per questo Dante ha bisogno
dell'aiuto di entrambe le cime del Parnaso, Cirra ed Elicona, dove risiedono rispettivamente
Apollo e le muse. L'invocazione ad Apollo è particolarmente accesa: "entra nel mio
petto ed ispirami con la stessa forza con cui hai scorticato Marsia". Marsia era
un satiro che sfidò Apollo nell'arte di suonare il flauto, e che il re Mida giudicò
vincitore; per vendicarsi, Apollo fece crescere al re le orecchie d'asino, e scuoiò
senza pietà il vecchio satiro. In questo caso, Dante richiede di essere da lui ugualmente
invasato, "tratto fuori da sé stesso" per meritare l'alloro, che premia i condottieri
e i poeti, ormai vergognosamente poco ambito dagli uomini. Se non riuscisse, Dante
spera almeno di dare un esempio che altri poeti possano seguire con migliori risultati. Segue una
descrizione astronomica che ricorda come ci troviamo nell'equinozio di primavera,
verso mezzogiorno: i quattro
cerchi sono l'orizzonte, l'equatore, l'eclittica e il coluro equinoziale (che unisce
i punti dei due equinozi con il polo nord e il polo sud celesti), e le tre croci
sono le intersezioni dell'orizzonte con gli altri tre cerchi; il numero dei cerchi
e delle croci richiama quello delle quattro virtù cardinali e delle tre virtù teologali.
Beatrice si volge verso il sole e lo fissa più a lungo di quanto
non facciano le aquile; e come un raggio di luce rimbalza su uno specchio, il suo
atto invita Dante a fare lo stesso, e si accorge di poter fissare anche lui il sole
molto più a lungo di quanto non sia possibile sulla Terra; così lo vede sfavillare
come ferro incandescente, come se alla luce del giorno si fosse aggiunta quella
di un altro sole. Poi guarda di nuovo Beatrice, e improvvisamente si sente come il pescatore Glauco
che mangiò l'erba che lo rese immortale, e che poi gli dei accolsero tra le
divinità marine. Dante dichiara che non è possibile descrivere a parole cosa si provi a superare
la natura umana ("trasumanare"), e non sa dire se in quel momento egli fosse solo
spirito o avesse ancora un corpo: ma vide la luce del cielo dilagare, moltiplicarsi
di intensità, e sentì una musica celestiale, che accese il suo desiderio di conoscerne
la causa. Beatrice, che vede in lui come egli stesso, anticipa la sua domanda: "ti
confondi perché non ti sei accorto di non essere più in terra": la musica e la luce
che sente sono quelle proprie della sfera del fuoco, che sta oltre la sfera dell'aria,
che hanno già attraversato, e sotto il cielo della Luna, dove sono diretti. E quando
Dante si chiede come possa volare, benevolmente Beatrice spiega che nell'ordine
di tutto il creato, "per lo gran mar dell'essere", c'è un luogo a cui ogni cosa,
animale o essere umano tende ad andare, se non è ostacolato; e gli uomini sono destinati al cielo più alto,
l'Empireo, che sta immobile mentre sotto di lui gli altri cieli ruotano con
velocità crescente; purché, nell'uso del libero arbitrio,
essi stessi non perdano il loro percorso naturale, inseguendo falsi piaceri. Ma
senza il peso di alcun peccato, sarebbe piuttosto stato meraviglioso se egli fosse
rimasto a terra, come se una fiamma rimanesse schiacciata al suolo.
Canto II
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il secondo canto del Paradiso inizia con un ammonimento di Dante ai lettori che
lo seguono "in piccioletta barca", ossia senza un'adeguata cultura per comprendere
i temi metafisici che affronterà: tornate a più domestici lidi, perché in alto mare
vi perdereste. Oltre ad Apollo e le Muse, anche Minerva, la dea della saggezza,
lo guida in acque mai navigate prima. Chi per tempo assaggiò il "pan de li angeli",
ossia la teologia, è bene che lo segua da vicino, senza perdere la scia del suo
vascello, e potrà meravigliarsi più degli argonauti quando videro Giasone che, per
la conquista del vello d'oro, nella Colchide riuscì ad aggiogare due indomabili
buoi dalle corna di ferro e le zampe metalliche, che spiravano fuoco dalle narici,
per poter seminare denti di serpente, da cui nascevano uomini armati. Dante riprende
il racconto, narrando che lui e Beatrice salivano "veloci quasi come 'l ciel vedete",
che si interpreta generalmente come "alla velocità con cui i cieli girano", oppure,
come io preferisco, "alla velocità con cui lo sguardo si inoltra attraverso il cielo",
che in chiave moderna sarebbe "alla velocità della luce". La terzina seguente, usando
la figura retorica detta "hysteron-proteron", rende la velocità del lancio di una
freccia dalla balestra usando un rovesciamento dei tempi: "un quadrel posa, / e
vola, e dalla noce si dischiava" (ossia colpisce il bersaglio, vola, e si allontana
dal punto in cui è fissato il grilletto). Anche se è un anacronismo supporre che
Dante potesse immaginarlo, è suggestivo rilevare come questo effetto si verificherebbe
se potessimo volare dietro alla freccia ad una velocità maggiore di quella della
luce! Arrivano infine al cielo della Luna, dove Dante si meraviglia di come il suo
corpo penetri all'interno del corpo della Luna, simile ad una nube densa che non
impedisce la vista, come un raggio di sole attraverso una goccia d'acqua; nello
stesso modo, osserva Dante, in Cristo si compenetrano due nature, quella umana e
quella divina. Poi Dante pone a Beatrice una questione che sembra marginale, ma
che permette di completare la descrizione metafisica dell'ordine del creato fatta
nel primo canto: abbiamo visto come tutte le cose "per lo gran mar dell'essere"
siano spinte nel luogo a loro stabilito, per tornare a quella unità in Dio che è
il loro fine: ora vedremo come a partire dalla prima causa rappresentata da Dio,
attraverso tutte le differenzazioni proprie di ogni cielo, si arrivi alla molteplicità
di aspetti e di influenze che si manifestano nella natura. La tradizione popolare
immaginava che le macchie scure visibili sulla Luna rappresentassero Caino in perpetuo
esilio lassù, con un cespuglio di rovi sulle spalle; Dante, come già scrisse nel
Convivio, pensa che siano dovute a zone di minore densità. Beatrice sorride e dà
del fenomeno una spiegazione che la riconduce a una manifestazione di un principio
universale, che sovrintende a tutte le influenze celesti. Prima fa una obiezione
di carattere teologico: nell'ottava sfera sono presenti stelle più o meno luminose
che hanno diverse influenze; se la differenza fosse data dalla densità, non si spiegherebbe
come una sola caratteristica possa essere causa di tante influenze diverse. Poi
fa una dissertazione di carattere più scientifico: se la Luna avesse zone meno dense,
esse potrebbero essere di densità omogenea oppure con una zona interna più densa,
come i muscoli nel grasso degli animali. Nel primo caso, queste zone dovrebbero
essere trasparenti nelle eclissi di sole, ma ciò non risulta; nel secondo caso,
si dovrebbe supporre che la zona più densa all'interno di quella meno densa rifletta
meno la luce perché più arretrata rispetto a quelle dense in superficie; qui propone
a Dante un vero e proprio esperimento di ottica: tra due specchi uguali, se ne ponga
uno in mezzo, su una posizione più arretrata: si potrà constatare che la luce riflessa
da esso è minore per la quantità, ma non per la sua luminosità, che dunque non dipende
dalla posizione. Il vero motivo delle differenze di luminosità è una conseguenza
dell'architettura generale del mondo: all'interno dell'astratto Empireo, in cui
Dio risiede, gira il cielo nono o "primo mobile" che influenza con la propria virtù
tutti i cieli sottostanti, attraverso il suo movimento rotatorio. Questa virtù si
differenzia nel cielo ottavo delle stelle fisse, generando altre virtù che continuano
a differenziarsi nei cieli sottostanti dei pianeti (tra cui anche il Sole e la Luna);
ogni cielo è influenzato dal superiore, e influenza quello inferiore. Come l'anima
dell'uomo manifesta le sue diverse caratteristiche in organi diversi del corpo,
così l'intelligenza del creato si esprime nelle diverse virtù pur rimanendo unica,
e traspare come la gioia attraverso gli occhi: ma in ogni virtù, essa risplende
in modo diverso, causando le differenze di luminosità che si riconoscono tra le
diverse stelle (e anche nelle zone chiare e scure della Luna). Per quanto ingenua
ai nostri occhi moderni, la visione di Dante della conoscenza si può così riassumere:
la ragione umana, poiché si basa sui sensi che possono ingannare, non è sufficiente
a raggiungere la verità: essa va integrata con la visione divina del creato, che
si ottiene con la grazia e la conoscenza della teologia; questa fu proprio la cosa
che mancò ad Ulisse, quando nella sua fame di conoscenza si avventurò nel sacrilego
viaggio concluso in vista del Purgatorio; questa è proprio la cosa che Dante ha
la grazia di possedere, quando ci guida con il suo vascello in queste profonde acque
metafisiche.
Canto III
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Dopo che Beatrice ha spiegato a Dante l'origine delle differenze di luminosità delle
regioni della Luna e degli astri tra loro, nel III canto del Paradiso si racconta
il primo incontro con le anime dei beati, che appaiono dai contorni lucenti ed indefiniti
come le perle che all'epoca le donne portavano come ornamento sulla fronte. Al contrario
di Narciso, che credette di vedere un'altra persona nella sua immagine specchiata
nell'acqua, Dante si volta, credendo di vedere immagini riflesse di persone alle
sue spalle; ma Beatrice gli spiega che si tratta di vere anime di beati, che però
si trovano nel cielo più lontano da Dio perché non adempirono fino in fondo ai voti fatti in vita. Incoraggiato
da Beatrice, Dante si rivolge allo spirito che sembra più ben disposto a parlargli,
chiedendo chi sia e quale sia la sua storia. L'anima si fa riconoscere da Dante:
è Piccarda Donati, sorella di Forese Donati, che Dante ha incontrato nel XXIV canto
del Purgatorio, e di Corso Donati, che invece fu uno degli avversari principali
di Dante, ed era un prepotente capo dei Guelfi di parte Nera. Dante si scusa di
non averla riconosciuta subito, a causa della luce di beatitudine che risplende
nei loro aspetti; e poi pone la domanda centrale di tutto il canto: cioè se i beati
del cielo della Luna, che è il più lontano da Dio, non provino il desiderio di salire
verso i cieli più alti.
Piccarda e gli altri beati si scambiano un sorriso che
testimonia la loro beatitudine, e poi lei spiega: la virtù di carità (che è il soggetto ricorrente di questo canto),
è una condizione comune in tutto il Paradiso, ed è proprio ciò che appaga la volontà di ogni beato;
e la carità, secondo la tradizione
scolastica, è l'adeguamento della propria volontà alla volontà dell'oggetto amato;
la pace corrisponde a questa identità di volere di ogni beato e di Dio. Dante comprende così come la beatitudine
sia in ogni parte del Paradiso, anche se la grazia divina non è distribuita in modo
uguale. Credo che potremmo farci un'immagine più adatta alla nostra mentalità moderna,
se immaginiamo una spiaggia in cui i bambini piccoli giocano sulla riva, quelli
più grandicelli nell'acqua più alta, ma sempre dove possono toccare facilmente il fondo,
mentre gli adulti si divertono dove l'acqua è ancora più profonda: ognuno desidera
di essere dove la profondità dell'acqua è adeguata alla sua capacità di nuotare
e divertirsi. Dante ringrazia e le chiede ancora il motivo per cui lei non adempì
ai suoi voti. Piccarda racconta come sin da giovane si rifugiò nell'ordine monacale
fondato da Santa Chiara, per essere devota a Cristo, lo sposo che accetta ogni
voto fatto da chi si conforma alla sua volontà attraverso la carità. E con poche
parole sobrie cariche di compassione chiude il suo racconto: uomini avvezzi più
al male che al bene, la rapirono dalla dolce vita monacale, e solo Iddio sa quale
fu la sua vita seguente; noi sappiamo che fu il fratello Corso a farla rapire per costringerla
ad un matrimonio di convenienza. Poi indica a Dante un'altra anima che le sta accanto, e
che subì una sorte del tutto analoga: è l'imperatrice Costanza, già ricordata da suo nipote Manfredi nel III canto del Purgatorio, che secondo la tradizione
fu tolta dal monastero per andare in moglie a Enrico VI di Svevia, e fu madre dell'imperatore
Federico II. Storicamente
non risulta aver mai preso i voti, ma con questi versi Dante rovescia una malevola
leggenda guelfa in una attestazione di reverenza. Poi Piccarda e le altre anime iniziano
a cantare "Ave Maria", che Dante spezza in due versi con un enjambement famosissimo,
e svaniscono lentamente come sparisce
un oggetto pesante che affonda in acque
profonde. Dante vorrebbe chiedere qualcosa a Beatrice ma, riguardandola, i suoi
occhi restano abbagliati dal suo splendore.
Canto IV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel IV canto del Paradiso Beatrice chiarisce a Dante due dubbi che lo hanno colto
dopo il colloquio con Piccarda.
Inizialmente Dante non riesce a decidersi quale esporre per primo, e resta bloccato
come un uomo tra due cibi ugualmente distanti e appetitosi, o un agnello tra due
lupi famelici, o un cane da caccia tra due daini: ma Beatrice legge in lui come
fece il profeta Daniele che indovinò e spiegò il sogno che perseguitava Nabuccodonosor,
che irato, minacciava di morte tutti i sapienti della sua corte che non riuscivano
a fare altrettanto; grazie alla sua preghiera, Daniele potè vedere che il sogno
raffigurava una gigantesca statua di un uomo, che crollava a causa dei piedi fatti
d'argilla, e spiegò che rappresentava l'impero Babilonese, il cui potere era instabile
rispetto all'eterno regno di Dio. Questa figura è ripresa da Dante nel XIV canto
dell'Inferno, quando parla del "veglio di Creta". I due dubbi di Dante sono questi:
come possa essere giusto che i meriti di Piccarda e Costanza siano diminuiti a causa
di una violenza che hanno patito, e se effettivamente le anime dei beati abbiano
sede nei diversi cieli in cui ha iniziato ad incontrarli, cosa che pare dare ragione
alla tesi di Platone per cui ogni anima risiedeva in una propria stella. Beatrice
spiega prima la seconda questione, che è la più velenosa, in quanto potenzialmente
eretica: l'angelo più vicino a Dio, Mosè, Samuele, Giovanni Battista e Giovanni
Evangelista, e perfino Maria, risiedono tutti, in eterno, nello stesso cielo Empireo
in cui risiedono anche i beati che Dante ha visto qui nel cielo della Luna: la differenza
di condizione risiede tutta nella loro capacità di accogliere con maggiore o minore
intensità l'amore di Dio. Il fatto di presentarsi a Dante in cieli differenti, è
solo un modo per manifestare la loro condizione, perché gli uomini apprendono
solo attraverso le esperienze sensibili. Per questo anche le scritture sono ricche
di allegorie, in cui si attribuiscono aspetti umani a Dio e agli arcangeli Gabriele
(che annunciò la gravidanza a Maria), Michele (che combattè contro Lucifero e gli
angeli ribelli) e Raffaele (che fece guarire Tobia dalla cecità). Esplicitamente,
Beatrice nega la tesi che Platone illustra nel Timeo, ossia che le anime esistano
dall'eternità ed abbiano sede nelle stelle, da cui sono occasionalmente separate
per vivere una o più vite terrene, e che siano destinate a tornare alla loro stella
di origine; tuttavia, la tesi non sarebbe del tutto sbagliata, se Platone si riferisse
solo alle influenze positive e negative che le stelle hanno sugli uomini; questo
principio, male interpretato, è quello che ha ndotto a dare alle stelle i nomi degli
dei. L'altro dubbio può far sembrare incomprensibile agli uomini la giustizia divina,
che comunque va accettata per fede: ma in questo caso è anche possibile spiegarla.
La violenza presuppone una resistenza da parte di chi la subisce, che non si piega
come il fuoco, che dopo un colpo di vento torna sempre verso l'alto. Ma le anime
del cielo della Luna si rassegnarono a subirla, al contrario di quanto fecero San
Lorenzo che piuttosto affrontò il martirio su una graticola, e di Muzio Scevola,
che per punire la sua mano del fallito attentato a Porsenna, la tenne su un braciere
finché non fu completamente bruciata; ma questa forza di volontà non è da tutti.
Beatrice anticipa allora a Dante un altro dubbio: potrebbe infatti sembrargli che
quanto lei ha appena spiegato contraddica quanto Piccarda ha detto sulla fedeltà
interiore che Costanza tenne al suo voto: è necessario distinguere tra la volontà
assoluta e quella condizionata dagli eventi: ad esempio, Alcmeone, per vendicare
il padre Anfiarao ucciso dalla moglie Erifile, si trovò dover essere empio verso
la madre, per onorare la volontà del padre; ma quando la violenza subita si mescola
alla volontà, allora ci si assume anche una parte di responsabilità: anche se la
volontà assoluta non accondiscende, quella condizionata si piega, per timore di
un danno maggiore. Piccarda si riferiva alla prima forma di volontà, Beatrice alla
seconda, e per questo entrambe dicono il vero senza contraddirsi. Dante ringrazia
per queste esaurienti spiegazioni, a tal punto gradite che teme di non essere capace
di esprimere adeguatamente la sua gratitudine. Il nostro intelletto brama la verità
come una fiera la propria tana, ma poi da ogni spiegazione germogliano altri dubbi
in modo naturale: così adesso vorrebbe sapere se è possibile soddisfare ai voti
non mantenuti con altri beni che non sembrino minori alla giustizia divina. Il compiacimento
di Beatrice per questa domanda si manifesta con un tale sfolgorio d'amore che Dante
non può sostenerne la vista, e quasi perduto, abbassa gli occhi verso terra.
Canto V
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Beatrice inizia il V canto del Paradiso spiegando a Dante che il suo splendore si accresce insieme alla perfezione della
sua visione di Dio, che anche in Dante migliora mentre apprende, e che ora vorrebbe sapere da lei
se un voto già fatto può essere sostituito senza commettere un peccato.
Dagli incisi di Dante, qui e più avanti, come anche in chiusura, sembra quasi che
Beatrice, e successivamente gli altri beati, si esprimano esattamente come lui trascrive,
cioè in terzine... Prosegue Beatrice: il libero arbitrio è il dono maggiore che
Dio ha riservato agli uomini e agli angeli, ed il voto si concretizza nell'offrire
a Dio proprio questo dono; dunque non si può riprenderlo per modificare il voto
già fatto, sarebbe come offrire in dono una cosa rubata. Però è vero che la Chiesa
ha il potere di modificarlo, per cui Dante ascolti e ricordi bene, perché "non fa
scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso": oltre al patto, o convenzione, stipulato
con Dio, il voto è caratterizzato da un oggetto che si offre, e questo può essere cambiato
con altro oggetto materiale, purché lo si faccia attraverso l'autorità della Chiesa (la chiave
bianca, o d'argento, e la chiave gialla, o d'oro, erano quelle possedute dall'angelo
alla porta del Purgatorio, e rappresentano la facoltà della Chiesa di comprendere
e perdonare i peccati), e purché il nuovo oggetto valga più del vecchio quanto
il sei vale più del quattro: a conti fatti, deve valere una volta e mezza il vecchio
oggetto; la proporzione riferita è assai più gravosa di quella riportata nel Levitico,
che parla dell'aggiunta di un quinto, che corrisponde alla proporzione tra
cinque e sei. Quindi, nel caso di un voto impegnativo, come quello di castità, obbedienza
e povertà, non esiste contropartita che possa riscattarlo. Conclusione: "Non prendan
li mortali il voto a ciancia"; ad esempio, il giudice Iefte di Galaad,
per vincere la guerra contro gli Ammoniti, fece voto di sacrificare il primo
che gli fosse venuto incontro al suo ritorno a casa, e per sua sciagura si trattò della
sua unica figlia. Questo voto fu stolto, ed egli fu empio nell'osservarlo: avrebbe
fatto meglio a chiedere il perdono a Dio per il suo errore. Ugualmente stolto ed
empio fu Agamennone, che per la partenza verso Troia promise in sacrificio a Diana
la cosa più bella del reame, che anche in questo caso risultò essere sua figlia Ifigenia, per
cui piansero tutti coloro che sentirono la sua triste storia. Esorta Beatrice: Cristiani,
siate più saggi! Seguite il vecchio e il nuovo testamento, e la guida del vostro
pastore, senza fare voti impulsivi, o almeno fateli con consapevolezza, per non
essere derisi dagli Ebrei, che per i voti seguono una precisa regolamentazione. Non
fate come l'agnello che, per seguire il suo capriccio, finisce per recarsi danno
da solo. Finita la sua esortazione, Beatrice rivolge lo sguardo verso il cielo,
e riprende con Dante la salita veloce come una saetta, arrivando al cielo di Mercurio,
anzi proprio dentro la luce di Mercurio stesso, che aumenta in virtù della luce
di Beatrice, e Dante si emoziona ancora di più. Ed ecco, come pesci che affiorano
attirati dal cibo sulla superficie di un lago pulito, più di mille anime appena
visibili per la loro lucentezza, che accolgono Dante lieti di essere a disposizione
della sua curiosità, che Dante trattiene a fatica: uno di loro si rivolge a lui
e lo invita a chiedere, e Beatrice lo incoraggia ricordando che in ogni beato si
esprime la verità divina. Così Dante chiede allo spirito che ha parlato chi egli
sia, e perché sia qui nella sfera di Mercurio; l'anima si illumina quanto il sole
che dissipa le nubi, e inizia il discorso riportato nel prossimo canto.
Canto VI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il VI Canto del Paradiso è completamente dedicato (caso unico in tutta la Divina
Commedia) al monologo di Giustiniano, che in pratica espone la visione di Dante
dell'Impero Romano come funzionale alla tutela della Chiesa, avendo così modo di chiarire
le sue critiche sia ai guelfi che ai ghibellini. Le fonti storiche a cui Dante attingeva non erano esatte in alcune
parti, ma il quadro che risulta evidenzia come il destino di Giustiniano fosse voluto
da Dio. Dice Giustiniano: Dopo che Costantino ebbe riportato a oriente (cioè a Costantinopoli)
il sacro simbolo dell'aquila imperiale, che rappresenta il potere temporale concesso
direttamente da Dio, vicino ai luoghi da cui un tempo si era mosso insieme ad Enea
(che sposò Lavinia), qui esso rimase per più di duecento anni, finché non arrivò
a me: sono Giustiniano, e sono stato l'imperatore che, per volere di Dio, riordinò
la giurisprudenza romana. Prima di dedicarmi a quest'opera, credevo che in Cristo
fosse presente solo la natura divina, e non quella umana (si tratta dell'eresia
monofisita), ma il papa Agàpito mi convertì alla vera dottrina; e ciò che allora
credetti per fede, ora posso comprenderlo così facilmente come tu puoi comprendere
che due frasi contraddittorie sono necessariamente una vera e una falsa (da notare
che questo esempio viene usato in supporto del dogma per cui la natura di Cristo
sarebbe contemporaneamente sia umana che divina, il che appare essere una contraddizione).
Dopo la mia conversione mi diedi al lavoro di riordinamento della legge, e lasciai
al mio generale Belisario la responsabilità dell'esercito, che comandò così bene
da far presupporre un'approvazione divina. Adesso sai chi sono, ma lascia che ti
spieghi quanto sia in errore chi oggi vorrebbe appropriarsi del sacro segno imperiale
(i ghibellini), e chi vorrebbe combatterlo (i guelfi, che propugnavano la supremazia
temporale del papa). Questo sacro simbolo è degno di reverenza per la virtù di tutti
gli uomini che combatterono per lui, a cominciare da Pallante, che fu ucciso da
Turno e poi vendicato da Enea nella guerra d'Italia (con questo episodio, Dante
ricollega l'inizio di questa epopea dell'aquila imperiale alla fine dell'Eneide).
Dimorò in Alba fino allo scontro tra Oriazi e Curiazi, che sancì la supremazia di
Roma; il suo dominio continuò a crescere dal ratto delle Sabine (sotto Romolo) al
suicidio di Lucrezia disonorata (che sancì la fine del regno di Tarquinio il Superbo),
e poi durante la repubblica, con le vittorie su Brenno (re dei Galli) e su Pirro
(re dell'Epiro che aiutò i Tarentini), e quelle di Tito Manlio Torquato (sui Galli
e i Latini), di Lucio Quinzio detto "Cincinnato" per i capelli ricciuti (sugli Equi),
e poi dei tre Deci (sui Latini e i Sanniti) e dei trecento Fabi (caduti nella guerra
di Veio), che volentieri onoro (ungo di mirra). Sempre sotto il sacro simbolo fu
respinto Annibale quando passò le alpi lambite dal Po, e con esso trionfarono ancor
giovani Scipione e Pompeo, mentre fu amaro per Fiesole (distrutta nella guerra contro
Catilina). Poi, quando il cielo volle ricondurre tutto il mondo sotto un'unica pace,
Cesare, per volere di Roma, prese in carico il sacro simbolo imperiale, prima vincendo
in Gallia, tra i fiumi Varo, Reno, Isère, Loira, Senna e Rodano; e poi, una volta
varcato il Rubicone, fu rapidissimo nel vincere in Spagna, a Durazzo (in Dalmazia),
a Farsalo (in Tessaglia, contro Pompeo), e poi fino al Nilo (dove Pompeo fu ucciso);
nella Troade rivide il porto di Antandro, da dove partì Enea, e il fiume Simoenta,
presso cui giace il corpo di Ettore. Poi in Egitto detronizzò Tolomeo in favore
di Cleopatra, si scagliò come una folgore su Giuba (re di Mauritania), per chiudere
infine il suo giro proseguendo fino alla Spagna meridionale, dove sbaragliò le ultime
armate di Pompeo. Le imprese del tutore successivo dell'insegna imperiale (Ottaviano)
sono attestate nell'inferno da Bruto e Cassio, e da Modena e Perugia (saccheggiate
da Antonio e Ottaviano); ne piange ancora Cleopatra, che dopo la morte di Antonio
si suicidò facendosi mordere da un aspide. Il dominio di Roma si estese fino al
mar Rosso, e il mondo conobbe un'epoca di pace tale che fu chiuso il tempio di Giano
(che veniva lasciato aperto quando Roma era in guerra). Ma ciò non è niente in confronto
a quello che il segno imperiale potè fare sotto il terzo imperatore (Tiberio): Dio
gli concesse di compiere la giusta punizione del peccato originale (con la crocefissione
di Cristo, che fu avallata da Pilato, rappresentante di Tiberio, e dunque, dal punto
di vista giuridico, di tutta l'umanità, riunita sotto il segno di Roma Imperiale).
Ti meraviglierai a sapere che poi, sotto Tito, lo stesso potere imperiale fece giustizia
di quella stessa punizione (con la distruzione del tempio di Gerusalemme). Più tardi,
questo stesso potere fu quello assunto da Carlo Magno quando difese la Chiesa romana
dalla persecuzione dei longobardi. Adesso puoi giudicare quanto si sbaglino le due
fazioni che originano tutti i vostri mali attuali: i guelfi oppongono al simbolo
del potere imperiale quello dei gigli d'oro, e i ghibellini riducono lo stesso simbolo
a rappresentare una fazione, ed è arduo giudicare chi sbaglia di più. Che i ghibellini
usino un altro simbolo, e che i guelfi di Carlo II d'Angiò non credano che Dio possa
trasmettere al loro simbolo l'autorità imperiale! Su questo piccolo pianeta (Mercurio),
ti appaiono coloro che furono buoni per brama di onore e fama, e questo però ha
limitato il loro amore per Dio. Ma la constatazione stessa della giusta ricompensa
al nostro merito è parte della nostra letizia, e vediamo come i diversi ordini di
beatitudine concorrano ad un'unico coro armonioso. Tra questi beati c'è anche Romeo
di Villeneuve, gran siniscalco di Raimondo Berengario, conte di Provenza, che egli
servì con amore ma poi fu ripagato con ingiustizia; ma di ciò non se ne giovarono
i cortigiani malvagi che lo calunniarono, come tutti gli invidiosi che vedono un
danno nei meriti degli altri. Il conte ebbe quattro figlie, e Romeo, che venne alla
corte umilmente come pellegrino straniero, riuscì a darle tutte come mogli ad altrettanti
re. Ma poi le malelingue calunniose indussero il conte a metterlo sotto inchiesta,
malgrado gli avesse incremetato le rendite da dieci a dodici (sette e cinque). Così
se ne ripartì, vecchio e solitario, povero come era arrivato, e se il mondo sapesse
con quanta dignità affrontò la miseria dei suoi anni seguenti, lo loderebbe ancora
di più di quanto già non faccia. In questa conclusione dimessa, si intravede un
cenno autobiografico di Dante, costretto in esilio a chiedere ospitalità con dignitosa
fermezza.
Canto VII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il VII Canto del Paradiso è un canto di indottrinamento teologico che al nostro gusto moderno può apparire
pesante, ma possiamo trovare un punto di interesse nella considerazione che Dante
si prefissava di dare, nella sua Commedia, una sorta di compendio della cultura
scolastica della sua epoca che, da persona colta quale era, aveva raggiunto sintetizzando
innumerevoli fonti, in un'epoca in cui l'accesso alla cultura era privilegio di pochissimi.
Per questo Beatrice parla come se rivelasse delle verità inedite, mentre gli studiosi
hanno ricostruito le fonti di Dante per questo canto in sant'Anselmo, oltre ai soliti
sant'Agostino e san Tommaso. Ma tutto va valutato nell'ottica di divulgazione della
conoscenza che Dante si prefissava; del resto, non mancherà di omaggiare tutti gli
autori delle sue fonti più in alto nel Paradiso. Il canto si apre con il commiato
cantato di Giustiniano e le altre anime mercuriali: "Osanna, santo Dio degli eserciti,
che sovraillumini con il tuo splendore le fiamme felici di questi regni". Il canto
in latino è impreziosito dalle due parole ebraiche in rima: "sabaoth" ("degli eserciti")
e "malacoth" (che dovrebbe essere in realtà "mamlacoth", "dei regni"). Così cantando,
Giustiniano, su cui si sommano le due luci di beato e imperatore, si volge a tempo,
insieme alle altre anime, ognuna danzando e allontanandosi rapidamente. Vorrei far
notare che, come le anime della Luna svanirono in dissolvenza, anche qui abbiamo un altro
"effetto visivo" a cui noi siamo abituati dal cinema e dalla televisione, ma che
Dante ha creato con la sola immaginazione! Dante è assalito da un dubbio,
ma la reverenza che si impadronisce di lui al solo sentir pronunciare le sillabe
del nome di Beatrice lo trattiene dal parlare. Ma Beatrice vede in Dio i dubbi di
Dante ed inizia il suo indottrinamento: "Tu sei perplesso per l'accenno di Giustiniano
a come una giusta punizione abbia meritato a sua volta una giusta punizione (il
sacrificio di Cristo e la successiva distruzione del tempio di Gerusalemme da parte
dei romani). Adamo, per non aver sopportato alcun limite impostogli per il suo bene,
dannò, insieme a sé stesso, tutti i suoi discendenti, fino alla venuta del Cristo,
in cui la natura umana si riunì in una sola persona con la natura divina. Così,
la persona del Cristo era pura come Adamo prima del suo peccato, che lo fece allontanare
da Dio. La pena della croce fu giusta perché inflitta alla natura umana del Cristo,
ma fu anche un sacrilegio perché inflitta anche alla sua natura divina. Così, mentre
apriva i cieli riappacificando Dio con la natura umana, fece tremare la terra per
l'oltraggio perpetuato dai Giudei, che dunque furono giustamente puniti quando i
romani distrussero il tempio di Gerusalemme, nell'anno 70 d.C. A questo punto, vedo
che ti assilla un'altra questione, e cioè perché Dio abbia voluto che la nostra
redenzione avvenisse proprio in questo modo. Poiché al riguardo esistono molte idee
sbagliate, ti spiegherò: la bontà divina crea solo cose perfette e incorruttibili,
e libere dalle influenze delle altre cose create in modo indiretto. Così è anche
l'umana natura, e per questo l'amore di Dio più arde per lei. Ma il peccato originale
rende la natura umana meno somigliante a Dio, e una volta diventata imperfetta,
non può tornare alla perfezione originale se non attraverso l'opera di Dio o l'accettazione
di una penitenza adeguata alla colpa. Ma poiché per l'uomo ormai imperfetto non
era possibile un'umiliazione abbastanza profonda da compensare l'orgoglio che lo
fece disubbidire, solo l'opera di Dio poteva salvarlo. E l'opera più adatta che
Dio potesse fare, la migliore tra tutte quelle compiute tra il primo giorno della
creazione e quello del giudizio universale, unì la sua infinita bontà con la sua
infinita giustizia, sacrificando sé stesso, prendendo la natura umana nella persona
del figlio, come atto di bontà, e sottomettendosi con la sua propria carne al martirio
che permise il riscatto di tutti gli uomini, come atto di giustizia. Un ultimo punto
devo ancora chiarirti: ti ho detto che tutte le cose create da Dio sono incorruttibili,
ma tu vedi come i quattro elementi, l'acqua, il fuoco, l'aria e la terra, e tutti
i loro composti, in realtà sono soggetti a corruzione; ed infatti, mentre gli angeli,
l'empireo e tutti i cieli sono stati creati direttamente da Dio, e sono composti
solo di 'quinta essenza' (che era associata alla forma del dodecaedro, mentre l'icosaedro
era associato all'acqua, l'ottaedro all'aria, il tetraedro al fuoco ed il cubo -
o esaedro - alla terra), tutti gli altri elementi sono creati a partire dalla materia
della quinta essenza e dalla virtù formativa che manifesta la sua influenza attraverso
le sfere celesti. Così tutti gli elementi composti, l'anima sensitiva degli animali
e quella vegetativa delle piante risultano creati dalla potenzialità della materia
che le stelle fanno esprimere; mentre invece l'anima umana deriva direttamente da
Dio, che per questo la ama quanto essa è attratta da Lui. Da ciò puoi anche capire
come anche il corpo umano sia destinato alla resurrezione della carne, poiché anche
Adamo ed Eva, secondo le Scritture, furono creati direttamente da Dio".
Canto VIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel Canto VIII del Paradiso, Dante e Beatrice raggiungono il terzo cielo, il cielo
di Venere, che secondo la tradizione nacque a Cipro, dalle acque del mare, da Giove
e Dione, ed ebbe da Marte il figlio Cupido. Virgilio racconta che, per fare innamorare
Didone di Enea (figlio di Anchise e Venere), mandò Cupido, con le sembianze del
figlioletto di Enea Ascanio, a sedere sul suo grembo. Il pianeta Venere è noto per
apparire sempre vicino al sole, a volte seguendolo al tramonto, a volte precedendolo
all'alba. Dante si accorge di averlo raggiunto, perché Beatrice diventa ancora più
bella. Nella luce diffusa del pianeta, vede muoversi altre luci, che si distinguono
come le voci modulate in un canto polifonico, che si avvicinano più veloci di turbini
o lampi (che a quei tempi si credevano essere dei vapori accesi), discendendo dall'Empireo,
attraverso il primo mobile mosso dagli angeli Serafini (dove hanno iniziato il loro
moto). Essi cantano "osanna" in modo così dolce che il poeta non ha più smesso di desiderare
di ascoltalo ancora. Uno di loro si fa avanti e parla a Dante, citando
l'incipit di una sua canzone contenuta nel Convivio, spiegando che essi si muovono
nel cielo di Venere con i Principati, l'ordine angelico a cui allude nel suo verso
"Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete" (anche se, quando lo scrisse, Dante pensava
che si trattasse dell'ordine dei Troni; ma le opinioni su questi ordini differiscono
anche tra i teologi). Dante, dopo l'incoraggiamento di Beatrice, chiede all'anima
chi sia, ed essa si illumina maggiormente, rispondendo che Dante lo riconoscerebbe,
se la troppa luce non gli impedisse di vederne i lineamenti; e dalla descrizione
che segue, sappiamo che si tratta di Carlo Martello, non il nonno di Carlo Magno,
ma il suo omonimo nipote di Carlo I d'Angiò e figlio di Carlo II di Napoli. In questo
canto si accenna anche ai suoi fratelli Roberto, re di Napoli dal 1309 al 1343, e Luigi,
vescovo di Tolosa, santificato nel 1317 come San Lodovico.
Dante ebbe modo di conoscere Carlo Martello quando venne a Firenze, e il giovane
principe stimava il poeta come la sua citazione del verso del Convivio lascia intendere,
e certamente avrebbe potuto aiutarlo e sostenerlo, se non fosse prematuramente scomparso.
La sua identità si ricava dalla lunga perifrasi dei regni che gli spettavano: la
Provenza (sulla riva sinistra della confluenza tra Rodano e Sorga), ed il regno
meridionale di Napoli o di Puglia, descritto come un corno a mezzaluna che contiene
le città Bari, Gaeta e Catona (vicino a Reggio Calabria), a sud dei fiumi Tronto
(che sfocia nell'Adriatico) e Verde (Liri o Garigliano, che sfocia nel Tirreno).
Nominalmente era già re d'Ungheria (attraversata dal Danubio dopo i territori tedeschi
e austriaci), e di Sicilia (la Trinacria, che sul golfo tra Pachino -oggi Capo Passero-
e Peloro -oggi Capo Faro- esposto al vento Euro -o Scirocco- fumiga a causa delle
esalazioni di zolfo, e non per il gigante Tifeo, che sbufferebbe sepolto sotto l'Etna
dopo essere stato fulminato da Giove), dove avrebbero potuto regnare anche i suoi
figli, per suo tramite discendenti da Carlo I d'Angiò, e per tramite di sua moglie
discendenti dall'imperatore Rodolfo I d'Asburgo (e quindi riunendo in un solo casato
gli Angioini, sostenuti dai Guelfi, e la dinastia imperiale, sostenuta dai Ghibellini),
se non fosse per il mal governo di Carlo I, che oppresse il popolo fino a spingerlo
all'insurrezione dei Vespri Siciliani nel 1282 (gridando "muoiano i francesi!").
Seguono tre terzine dall'interpretazione controversa, in cui Carlo biasima il governo
del fratello Roberto, che pur discendendo da un nobile casato, governa con avidità,
per la cattiva influenza di funzionari o mercenari al suo seguito dalla Catalogna.
Questa critica offre l'opportunità a Dante di chiedere, dopo avere espresso la sua
felicità di averlo ritrovato in Paradiso, come possano perdersi le virtù di generazione
in generazione. Carlo spiega che attraverso le sfere celesti si manifesta l'influenza
di Dio che non si esaurisce nella formazione della natura di ogni uomo, ma comprende
anche la vocazione che permette loro di meritarsi la vita eterna. Se così non fosse,
non vi sarebbe ordine né perfezione nel movimento dei cieli e del primo motore,
cosa che è impossibile, essendo opera diretta di Dio. Anche
Dante ne è assolutamente convinto, come è convinto dell'affermazione seguente di
Carlo, cioè che la condizione migliore per l'uomo sia nella vita civile. Ma, come
scrive Aristotele, essa richiede la divisione dei
compiti tra gli uomini, e per questo è bene che ognuno abbia una diversa attitudine.
Per questo uno nasce
con la vocazione politica di Solone, un altro condottiero come Serse, uno adatto
al sacerdozio come il biblico Melchisedèc, e un altro inventore e architetto come
Dedalo, che perse il figlio Icaro volando via dal labirinto di Cnosso. Queste vocazioni
individuali sono distribuite senza tener conto del casato di appartenenza: per questo
i gemelli Esaù e Giacobbe ebbero un'indole così diversa, e per questo Romolo
Quirino fu grande, malgrado le origini umili del padre, tanto
che la sua paternità
si attribuisce tradizionalmente a Marte; altrimenti i figli sarebbero sempre simili
ai genitori. Carlo conclude con un corollario interpretabile come una critica alla sua
propria casata: come semi in un terreno non adatto, anche le capacità degli uomini
non si sviluppano bene se sono forzati contro la loro inclinazione naturale: invece,
accade che sia imposta la carriera ecclesiastica a uno nato per comandare (forse
allude al fratello Luigi), mentre viene fatto re chi sarebbe più adatto a dire sermoni
(forse allude al fratello Roberto); e così viene perduto il cammino naturale di ognuno verso
la salvazione.
Canto IX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Poiché Dante, in apertura del Canto IX del Paradiso, si rivolge probabilmente a
Clemenza d'Asburgo, moglie di Carlo Martello, che morì pochi mesi dopo di lui, è
probabile che essa sia una muta presenza a fianco del marito; il quale accenna al
sopruso che il figlio Caroberto subirà da parte di Roberto, fratello di Carlo, ma
prega Dante di non riferire altro, se non che questa impostura causerà molto dolore.
Poi torna a rivolgersi a Dio, il bene che satura ogni cosa, a cui gli uomini, creature
empie, si distolgono per illusioni inutili. Si avvicina un altro spirito luminoso, e Dante, rassicurato come in precedenza dell'assenso di Beatrice, si rivolge ad esso chiedendo
di dargli prova di come possa leggere i suoi pensieri; e questi gli risponde dichiarando,
con una perifrasi geografica, i suoi natali e la sua identità: Si tratta di Cunizza
da Romano, sorella del despota veneto Ezzelino III, nata come il fratello su un
colle della Marca Trevigiana, che si estende da Venezia (citata attraverso il ponte Rialto)
alle sorgenti del Brenta e del Piave. Ebbe diversi mariti ed amanti prima di dedicarsi a Dio
e alle opere di carità, e probabilmente Dante da ragazzo ebbe occasione di vederla.
Paragona suo fratello a una torcia che devastò
la zona, mentre di sè dice di essere nel cielo di Venere perché in vita ne è stata influenzata, ma questo
fatto ormai non è per lei motivo di fastidio, per quanto possa essere difficile
per gli uomini comprenderne la ragione. Accenna ad un'anima che splende vicino a
lei, che ebbe una fama che durerà ancora a lungo (forse Dante intende cinquecento
anni), esempio di come una vita condotta in modo eccellente possa condurre alla seconda vita,
quella celeste. Ma non si dedicano a questo gli attuali suoi concittadini, che risiedono
tra i fiumi Adige e Tagliamento, malgrado la punizione che incombe su di loro. Cunizza
fa tre profezie: presto la palude di Padova, che bagna Vicenza, avrà l'acqua colorata
di rosso dal sangue di uno scontro tra Guelfi e Ghibellini che avvenne nel 1314;
a Treviso, dove si uniscono i fiumi Sila e Cagnano (oggi Botteniga) uno dei capi
che spadroneggiano verrà preso ed ucciso (Rizzardo da Camino, ucciso nel 1312); e
Feltre piangerà per le malefatte del suo empio pastore (il vescovo Alessandro Novello),
tali che nessun prigioniero è mai stato incarcerato in precedenza per
cose simili (la "malta" era un nome che indicava popolarmente più di una prigione
dell'epoca). Questo vescovo consegnò al vicario di Ferrara alcuni ferraresi che
si erano rifugiati a Feltre, e che poi furono decapitati, per mostrarsi fedele al
papa e agli Angiò. Non basterebbe una bigoncia, continua Cunizza, per contenere
il sangue che fece versare, e si stancherebbe chi lo volesse pesare oncia per oncia.
Fanno fede della verità di queste parole i Troni, il cui ordine angelico presiede alle stelle
fisse, che riflettono i giudizi di Dio. Poi Cunizza torna a rivolgersi a Dio, e
riprende il suo movimento. Si fa avanti allora l'altro spirito a cui lei aveva accennato,
che rifulge per la letizia. Anche a lui Dante chiede
di leggere i suoi desideri attraverso Dio, e di parlargli con la sua voce, che in
cielo canta insieme ai Serafini, che sono rivestiti con tre paia di ali. Dante non
aspetterebbe la sua domanda, se potesse leggerla in lui come egli può leggere nella
mente di Dante ("intuarsi" vale "farsi te", come "inmiarsi" vale "farsi me", come
in precedenza "inluiarsi" vale "farsi lui" e "incinquarsi" vale "farsi cinque",
sono tutti neologismi di Dante che non sono rarissimi, ma in questo canto toccano
il numero record di quattro). Anche il nuovo spirito descrive la sua terra natia con una
perifrasi geografica: oltre all'Oceano che circonda tutte le terre, il mare che
ha la maggiore estensione (il Mediterraneo), tanto che l'orizzonte di uno dei suoi
estremi è circa a metà della sua lunghezza, è delimitato a nord e a sud dai lidi d'Europa e d'Africa. Egli
nacque nella terra che giace tra i fiumi Ebro (che sfocia in Catalogna) e Magra (che per un breve
tratto divide la Liguria della Toscana), e la sua città ha lo stesso meridiano (e
gli stessi meridiani in cui il sole tramonta e sorge) di Bugia, città dell'Algeria.
Si tratta di Marsiglia, il cui porto fu inondato di sangue in seguito all'assedio
di Decimo Bruto, nel 49 a.C. È Folco o Folchetto di Marsiglia, che subì l'influsso
di Venere, come egli dice, fino a che l'età glielo permise, più di Didone (la figlia
di Belo), che mancò rispetto sia al defunto marito Sicheo, che a Creusa, la prima moglie
di Enea, e più di Fillide, principessa della Tracia,
delimitata dai monti Rodopi, che si uccise per amore di Demofoonte, che la sedusse
e abbandonò, e anche più di Ercole, figlio di Alceo, che si innamorò di Iole, suscitando
la gelosia della moglie Deianira, che per questo gli diede la camicia intrisa del
sangue del centauro Nesso, pensando che lo rendesse fedele, ma invece causò la sua
morte... Folchetto, dopo una giovinezza con fama di poeta d'amor cortese e grande
seduttore, si ritirò a vita monastica e divenne vescovo di Tolosa, e responsabile
della sanguinosa crociata endocristiana contro gli albigesi, che evidentemente Dante
giudicava in modo diverso da come la si giudica oggi. Egli spiega a Dante che, nonostante
le licenziosità commesse in vita, qui non si ha memoria della colpa, ma si ammira
come Dio, modellando dal mondo celeste il mondo terreno, possa fare rivolgere al
bene anche la passione amorosa. Un'altra anima risplende accanto a lui, e Folchetto
spiega che si tratta di Raab, la prostituta di Gerico che ebbe fede nel Dio degli
ebrei e aiutò gli uomini inviati da Giosuè, e che poi fu salvata e accolta tra loro
quando la città fu conquistata e distrutta. Raab è presa come esempio di fede
operosa, ed è la prima anima che Cristo, nel suo trionfo, assegnò
al cielo di Venere, dove Dante (seguendo l'astronomo Alfragano) erroneamente pensava
che potesse arrivare il cono d'ombra della Terra; e questo giustificherebbe un residuo
di "influenza terrena" che avrebbero i primi tre cieli, della Luna, di Mercurio e di Venere, che
costituirebbero un corrispondente alla zona iniziale
dell'Inferno e all'Antipurgatorio, che non a caso occupano i primi nove canti delle
due Cantiche precedenti. Con la lode di Raab, simbolo nel cielo di Venere della
vittoria che Cristo conquistò con le mani aperte all'atto della sua crocefissione,
Folchetto ricorda la prima vittoria di Giosuè in Terra Santa, ricollegandosi alle
Crociate, per biasimare come ormai non interessino più al papa, e si lancia nella
sua rampogna conclusiva, partendo da Firenze, descritta come generata da Satana (che primo
voltò le spalle a Dio), perché diffonde il maledetto fiorino, per cui il gregge della
Chiesa pensa più a quello che alle cose sacre, ed ha tramutato il pastore (il papa)
in un lupo avido,
che insieme ai cardinali, trascura i libri sacri per dedicarsi ai Decretali, i libri
di tipo amministrativo e burocratico, come appare dai loro margini tutti consumati,
mentre trascura la conquista della Terra Santa dove, a Nazareth, Gabriele annunciò
a Maria, con le ali aperte per reverenza, la sua immacolata concezione.
Ma presto il colle Vaticano e le altre parti di Roma che videro il martirio dei
primi cristiani, saranno liberate dal responsabile dell'indegno adulterio...
Canto X
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il X Canto del Paradiso si apre con una lode alla creazione di Dio, che guarda al
Figlio mentre da uno all'altro
soffia lo Spirito Santo. L'ordine dei cieli e delle
intelligenze celesti che li muovono esprime una bellezza che percepiscono tutti coloro
che lo ammirano. Guarda, o lettore, verso il punto equinoziale in cui i moti del
sole e dello zodiaco si incrociano, e vedi come l'inclinazione dei loro piani sia
stata scelta in modo preciso per permettere le influenze celesti e considera come, se essa
fosse stata poco maggiore
o minore, sarebbe sconvolto l'ordine della Terra. Oggi sappiamo che se veramente
l'inclinazione della rotazione terrestre fosse poco diversa, il ritmo delle stagioni
sarebbe così sconvolto da rendere la Terra inadatta ad ospitare la vita. Mentre
oggi gli
scienziati si appellano al principio antropico (che nella sua forma "debole"
afferma che anche se le condizioni adatte alla vita sono molto particolari, necessariamente
ogni vita evoluta non potrà che constatarle intorno a sé); ma all'epoca di Dante non
si poteva che attribuire questa coincidenza alla precisa volontà di Dio. Prosegue
Dante: resta attento,
o lettore, alle mie parole, se vuoi trarne un utile nutrimento,
mentre proseguo il mio racconto. Il Sole, che più di ogni altro pianeta influenza la
Terra e ne scandisce il tempo, era congiunto proprio al punto equinoziale, nella
parte del suo percorso in cui ogni giorno successivo sorge un po' prima, quando
Dante,
con la scorta di Beatrice, entra nel suo cielo, senza accorgersene, come l'uomo
non si può accorgere dei pensieri che gli nascono in mente, se non quando sono
già presenti. Qui le anime del quarto ordine dei beati sono così luminose da poterle
distinguere nella luminosità del Sole, che è la cosa più luminosa che possiamo
ammirare in vita. Beatrice esorta Dante a ringraziare Dio, e Dante si immerge
nella devozione tanto da dimenticarsi per un attimo
anche di Beatrice; ma il compiacimento stesso di Beatrice la rende così bella che
di nuovo il poeta è distolto dalla preghiera.
Le anime vicine si dispongono
in cerchio attorno a loro, cantando in modo ancora più dolce di quanto non fossero luminose,
così bello da non poter essere descritto. L'alone che formano è simile a quello
della Luna quando l'aria è umida (la figlia di Latona è Diana, la dea mitologicamente
associata alla Luna). Dopo tre giri, le anime si fermano, come danzatrici in attesa
della ripresa della musica, e un'anima si rivolge a Dante: "La grazia risplende
in te tanto da condurti su per questi cieli, da cui nessuno scende sulla Terra senza
poi risalire; e chi ti negasse la conoscenza che desideri, non sarebbe libero come
l'acqua che fosse impedita di scendere verso il mare. Tu vuoi sapere da chi è composta
questa ghirlanda di anime: io sono stato un agnello del gregge di san Domenico, dove
si cresce bene, se non ci si perde in vanità (questo verso sarà ripreso nel prossimo
canto); alla mia destra, sta Alberto
Magno di Colonia, che fu frate insieme a me e mio maestro (che fu chiamato doctor
Universalis); io sono Tommaso D'Aquino (che
all'epoca in cui Dante scriveva
ancora non era stato fatto santo). Se vuoi conoscere
gli altri, segui le mie presentazioni: accanto a noi, risplende il sorriso di Graziano,
che rese concordi la legge civile e la legge ecclesiastica (la sua opera più importante
fu il riordino dei testi e dei canoni ecclesiastici, ponendo le basi del diritto canonico).
Poi vedi Pietro Lombardo, che scrisse una raccolta di sentenze dei padri della Chiesa,
e nel prologo affermò di offrirli a Dio come l'elemosina della povera vedova nel
Tempio, raccontata nel vangelo di San Luca, che offrì a Dio solo due monete, ma
che rappresentavano tutto il suo capitale, e perciò fu l'offerta più gradita. La
quinta luce è la più splendente di questo cielo, e nel mondo alcuni si chiedono
se sia in Paradiso: egli fu depositario di tanta sapienza, che nessuno più ebbe
in grazia di avere (si tratta di re Salomone, proverbialmente saggio, ma le cui
intemperanze in vecchiaia alimentarono l'opinione che potesse essere stato dannato).
Accanto, vedi la luce di colui che più di ogni altro vide l'ordinamento e la natura
degli angeli (Dionigi l'Aeropagita, che scrisse sulle gerarchie celesti); nella
luce più piccola sorride il difensore dei tempi cristiani, citato spesso da sant'Agostino
(si tratta probabilmente Paolo Orosio, che nella sua opera controbatteva agli avversari
del cristianesimo, che affermavano come il mondo fosse peggiorato dopo il suo avvento).
Se mi hai seguito, siamo all'ottava luce: in essa gioisce della visione di Dio l'anima
di colui che indicò, a chi la seppe ascoltare, l'illusorietà dei beni mondani; il
suo corpo è sepolto nella basilica di San Pietro in Ciel d'oro a Pavia (è Severino
Boezio, che prima fu senatore e console ma poi, messo in prigione, scrisse il "De
consolatione philosophiae", un testo fondamentale per la trasmissione della cultura
latina nel medioevo, da cui Dante fu molto influenzato). Accanto, vedi le anime
di Isidoro, di Beda e di Riccardo, che nella sua attività contemplativa fu più simile
ad un angelo che ad un uomo (sono autori molto eruditi e famosi del medioevo,
l'ultimo in particolare fu un mistico che scrisse della difficoltà di ricordare le esperienze di "excessus mentis",
cosa che Dante riprenderà descrivendo la sua visione di Dio). L'ultimo,
qui alla mia sinistra, è uno spirito tanto assorto in pensieri profondi e tormentosi,
che attendeva la morte come una liberazione: è Sigieri di Brabante, che fece lezione
alla Sorbona, nel Vicolo degli Strami (o della paglia), dimostrando con sillogismi
delle verità scomode, che gli procurarono persecuzioni". Tutti questi dotti erano
autori studiati alla Sorbona, la neonata università di Parigi, ed alcuni, come Sigieri,
ne furono insegnanti. Dante probabilmente la frequentò, anche se forse non poté compiere
un intero ciclo di studi, ma senz'altro ne fu influenzato ed ebbe modo di conoscere
idee per quel tempo rivoluzionarie. Sigieri di Brabante, in particolare, fu il massimo
esponente del cosiddetto "averroismo latino", che riprese l'insegnamento di Averroè,
che a sua volta si ispirava ad Aristotele. Una di queste idee è il "monopsichismo", cioè l'idea che l'intelletto
sia fondamentalmente unico, mentre individuali resterebbero solo tutte le caratteristiche
che ci distinguono tra noi (e tra ogni essere vivente).
Recentemente questa stessa idea è stata riformulata dal prof. Daniel Kolak
nel suo libro "I am You" dove viene chiamata "Open Individualism".
Una mia rielaborazione personale è descritta nelle pagine di filosofia di questo sito come
"la terza ipotesi",
ma potrebbe più appropriatamente essere chiamata "neomonopsichismo".
Il canto termina con una similitudine tra il meccanismo di un orologio (che testimonia dell'esistenza di
orologi costituiti da congegni meccanici), che suona la sveglia perché la sposa
di Dio (la Chiesa) si levi per recitare la preghiera mattutina a Cristo (lo sposo), e la
ripresa del movimento circolare e del canto di quella ruota di beati, di tale dolcezza
che non può essere conosciuta se non là dove la gioia diventa eterna.
Canto XI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il canto XI del Paradiso
è dedicato a San Francesco, le cui lodi sono declamate
da San Tommaso, secondo la tradizione di reciproca cortesia che vigeva tra i frati
francescani e domenicani, secondo la quale la lode di un santo era declamata da
un membro della confraternita fondata dall'altro santo. Il canto si apre con la
considerazione di Dante su come appaiano vane e dispersive tutte le attività umane,
viste dall'alto dei cieli dove si trova accolto con Beatrice. Intanto la corona
dei beati ha compiuto un intero giro, e la luce di Tommaso si rivolge di nuovo a
lui, poiché, vedendo attraverso Dio i pensieri di Dante, egli vuole sciogliere i
dubbi che vi ha visto sul suo discorso precedente, quando ha detto "u' ben s'impingua
(se non si vaneggia)", riferito all'ordine dei domenicani (di cui fa parte) e "non
nacque (non surse) il secondo", riferito a Salomone e alla sua ineguagliabile saggezza.
Notiamo che, essendo nel cielo del Sole, che non ha più alcun influsso residuo dell'ombra
della Terra, Dante non ha più bisogno di interrogare i beati, come ha continuato
a fare fino al cielo di Venere, perché essi, come già egli auspicava, vedono i suoi
desideri e con prontezza prevengono le sue domande. Tommaso inizia la spiegazione
della prima frase, prendendola molto alla lontana: la provvidenza, per sostenere
la Chiesa, che Cristo sposò con il sangue sulla croce, perché la sposa fosse più
sicura e più fedele, inviò due prìncipi per guidarla: Francesco, ardente di carità
come un Serafino, e Domenico, con una sapienza luminosa quanto quella dei Cherubini.
Egli parlerà di Francesco, ma spiega che, lodando chi si voglia tra questi due,
si lodano comunque entrambi, perché le loro opere furono indirizzate allo stesso
fine. Tommaso descrive con una perifrasi geografica la località di nascita di San
Francesco: tra il fiumicello Tupino e il corso d'acqua (Chiascio) che scende dal
colle dove stette in eremitaggio all'inizio del dodicesimo secolo il beato Ubaldo
Balassini (che poi diventò vescovo di Gubbio), si trova il massiccio del Subasio,
alle cui pendici stanno, a occidente, la città di Perugia, che apre verso di esso
la sua "Porta Sole", e ad oriente, esposti a condizioni atmosferiche meno miti,
Nocera Umbra e Guado Tadino. Sul versante meno ripido che dà verso Perugia, nacque
un sole, come fa questo stesso del cielo in cui ci troviamo, che nel giorno dell'equinozio
pare sorgere dal Gange (per Dante, in estremo oriente). Per questo, il luogo dove
egli nacque, piuttosto che Assisi (che deriva etimologicamente da "ascesi"), dovrebbe
essere più propriamente chiamato "Oriente". Ancora giovane, iniziò a manifestare
le sue virtù, e contro la volontà paterna, al suo cospetto ed apertamente davanti
a tutti prese in moglie una tal donna che tutti rifuggono come la morte, e che da
più di mille e cento anni stava vedova e disprezzata da tutti. Non le valse l'esser
nota come sicura, giacché in virtù di essa Amiclate, umile barcaiolo dell'Epiro,
non ebbe soggezione nemmeno di Cesare in persona, quando egli entrò imperiosamente
nella sua misera capanna di canne, che aveva l'uscio sempre aperto, come narra Lucano;
né le valse essere stata fedele e fiera sposa di Cristo tanto che, mentre Maria
rimase ai piedi della croce, ella salì sopra con lui; fuor di metafora, il giovane
sole è Francesco, e la sposa è la Povertà, che Dante accosta implicitamente alla
Chiesa intera, presentandola anch'essa come "sposa di Cristo" (in conformità con
altri passi in cui biasima la commistione tra potere secolare e potere ecclesiastico,
e il possesso di beni terreni da parte della Chiesa).La unione serena tra Francesco
e Povertà fu così ammirata che subito tanti altri vollero imitarlo: prima Bernardo
di quintavalle, da non confondere con Bernardo di Chiaravalle che Dante incontrerà
negli ultimi canti del Paradiso, poi Egidio, giovane semplice, Silvestro, già prete
di Assisi, che si fece seguace in seguito ad un sogno, ed altri che in breve tempo
formarono una comunità, che già si distingueva per indossare l'umile saio legato
con la corda. Né l'essere figlio di Petro Bernardone, un semplice mercante, né l'avere
un aspetto così trascurato, mise a Francesco alcuna soggezione, quando si presentò
davanti al papa Innocenzo III, che diede il primo assenso verbale alla sua rigida
regola. I suoi seguaci si moltiplicarono velocemente, e il papa Onorio III, ispirato
dallo Spirito santo, concesse a questo determinato pastore l'assenso formale con
la bolla pontificia del 1223. Francesco poi andò a predicare in Terrasanta, al cospetto
del sultano d'Egitto che lo accolse benevolmente ma non volle convertirsi; quando
Francesco si rese conto che di più non poteva sperare, tornò in Italia e qui, su
una rocca desolata tra il Tevere e l'Arno (la Verna), ricevette le stimmate da Gesù
Cristo, come terzo sigillo di assenso divino. Morì di lì a due anni, circondato
dai suoi frati, a cui raccomandò la sua donna (la povertà) perché continuassero
ad amarla, e morì nel suo grembo, non volendo altra bara che la nuda terra. Si rivolge
di nuovo Tommaso a Dante: pensa come deve essere stato grande Domenico, se potè
essere suo degno collega nel governare la barca di Pietro (la Chiesa). Eppure i
suoi seguaci si perdono oggi dietro a nuovi studi non propriamente teologici, e
come pecore avventurate in pascoli troppo lontani, tornano all'ovile con poco latte
da mungere; ce ne sono alcune che restano vicine: ma sono così poche, che poco panno
è sufficiente per fare le cappe che le rivestono. Se mi hai seguito attentamente,
adesso dovresti avere sciolto il primo dei due dubbi che avevi, perché dovresti
aver capito da dove si scheggia la pianta dei frati domenicani, e il motivo della
correzione presente nella mia frase in cui affermavo che nei loro conventi si è
ben nutriti, se non ci si perde in studi inutili. Questa chiusa che ribadisce l'inutilità
degli studi non propriamente teologici richiama la considerazione di Dante in apertura,
che vedeva tutti i mortali affannarsi dietro occupazioni che apparivano ugualmente
vane, in confronto alla sua esperienza diretta di rivelazione di quella massima
sapienza che era per lui la teologia.
Canto XII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel XII canto del Paradiso il francescano San Bonaventura replica al domenicano
San Tommaso che nel canto precedente ha elogiato San Francesco, tessendo le lodi
di San Domenico, come era in uso in segno di reciproco rispetto tra i due ordini.
Il canto, anche nella struttura, ha molti punti di simmetria con il precedente.
Appena il precedente discorso di San Tommaso si è chiuso, la ruota dei beati riprende
a girare e cantare, e viene circondata da una seconda ruota di beati, che gira e
canta allo stesso modo, con un canto così soave che vince quello delle Muse e delle
sirene, come la luce diretta vince in intensità la luce riflessa. Le due ruote concentriche
girano intorno a Dante e Beatrice come a volte si vede in cielo, sopra l'arcobaleno,
un secondo arcobaleno meno intenso che ne sembra quasi l'eco; l'ancella ai comandi di Giunone
è infatti Iride, mentre Eco è la ninfa che si consumò per l'amore non corrisposto
per Narciso; inoltre l'arcobaleno è considerato un segno della pace di Dio
con gli uomini, perché con esso promise a Noè di non mandare più un altro diluvio
universale. Quando questa festa di cori e luci piene di gioia e di carità si acquieta,
con una sincronia come quella con cui si muovono gli occhi, una delle nuove luci
si rivolge a Dante, che si volta verso di lei come l'ago della bussola verso la
stella polare. Dice la voce: l'amore che mi pervade mi spinge a parlare dell'altro
condottiero della fede, dopo che si è parlato così bene del mio, perché è giusto che
la gloria risplenda insieme su di loro, in quanto entrambi combatterono per la stessa
causa. Infatti quando i cristiani si stavano disperdendo ed erano in dubbio,
la grazia di Dio volle mandare in loro soccorso due campioni della fede, per riunirli
e farli ravvedere. In quella parte del mondo dove soffia lo Zefiro, che dall'oceano
Atlantico porta in Europa l'aria mite della primavera, là dove il sole tramonta
nel solstizio estivo, quando il suo corso è più lungo, là si trova Calaroga, in
Castiglia, che ha per stemma uno scudo dove nella metà di sinistra si ha una torre
sopra un leone, e nella metà di destra un leone sopra una torre. Qui nacque Domenico,
il fedele servitore della fede cristiana, il santo difensore dei buoni cristiani
e duro contro gli eretici. Appena Dio creò la sua anima, era già così piena di virtù
da infondere visioni profetiche alla madre che lo teneva in grembo. Il suo battesimo
sancì il matrimonio tra lui e la fede, in cui mutuamente si donarono la salvezza,
in quanto con quell'atto egli fu liberato dal peccato originale, e poi con la sua
opera egli avrebbe difeso la fede dalle eresie, e poiché la donna che gli fece da
madrina ebbe in sogno delle visioni che ne simboleggiavano la futura grandezza,
da ispirazione celeste decise di chiamarlo con l'aggettivo che indica la sua appartenenza
a Dio: Domenico infatti significa "del Signore". Egli fu l'agricoltore che Cristo
inviò a coltivare il suo orto, cioè la Chiesa. Ben presto rivelò la sua natura di
inviato e servitore di Cristo, ed il primo sentimento che manifestò fu conforme
al primo consiglio che Cristo diede ai discepoli, sulla cui identificazione c'è
qualche dubbio, ma dal contesto si capisce che è un riferimento all'umiltà e alla
povertà. Da notare come, per rispetto, Dante faccia rimare "Cristo" solo con sé
stesso (accade solo nel Paradiso, ai canti 12, 14, 19 e 32). Infatti, capitò alla
sua nutrice di trovarlo sveglio a pregare per terra, come per dire "Sono nato per
questo". Suo padre poteva ben essere Felice, come significa il suo nome, come sua
madre Giovanna, che etimologicamente deriva da "Yochanan" che significa
qualcosa come "piena di grazia". Egli non ricercò gli onori mondani, come molti
fanno seguendo l'Ostiense (si affannano nello studio del diritto canonico come Enrico
di Susa detto l'Ostiense) o seguendo l'esempio di Taddeo (forse Taddeo d'Alderotto che ebbe
una celebre scuola medica a Bologna; in questo caso l'Ostiense e Taddeo richiamerebbero
"dietro a iura e... ad amforismi" del canto precedente), ma divenne ben presto dottore
della vera sapienza, la teologia, così da mettersi a fare la guardia alla vigna,
la Chiesa, che appassisce se il vignaio, il papa, non fa il proprio dovere. Ed alla
sede pontificia, che in passato fu più benevola con i poveri, ma non adesso, per
colpa di chi vi risiede, che si allontana da Dio, egli non chiese né parte di ciò
che spetta ai poveri, né la rendita di qualche proprietà ecclesiastica disponibile,
né chiese le decime, che spettano ai poveri (e non agli ecclesiastici), ma la licenza
di combattere gli errori degli eretici, per quella fede da cui sono germogliati
i ventiquattro sapienti che formano le due corone di beati. Poi, con il mandato
conferitogli dal papa, si mosse come un torrente impetuoso contro gli eretici, con
più forza là dove c'era più resistenza. Tristemente famosa è la sanguinosa crociata
contro gli Albigesi (1213), anche se nessuna violenza è imputabile personalmente
a san Domenico. Dal suo ordine si originarono poi i Predicatori, le suore Domenicane
e il Terz'Ordine, o comunque altri monasteri, che contribuirono a rendere viva la
Chiesa cattolica. Se tale fu la vita di una ruota del carro che rappresenta la Chiesa
(come nel XXIX del Purgatorio), puoi immaginare la grandezza dell'altra ruota, San
Francesco, che San Tommaso ha celebrato così bene. Ma ormai il solco che quella
ruota ha tracciato è trascurata, come le incrostazioni del vino in una botte non
curata diventano muffa; i suoi frati, che un tempo camminavano dritti, ormai sono
tanto perduti, che il piede davanti torna verso il piede dietro; e presto si vedrà
quando al raccolto (del giudizio di Dio) il loglio, le erbacce, saranno separate
dal grano, e si lamenteranno invano di aver perduto la salvezza. Certo, se si esaminano
tutti i nostri confratelli, come le pagine di un libro, su alcune sarebbe scritto
"io sono rimasto come dovevo essere", ma non su quella di Ubertino da Casale, che
tende ad irrigidire la regola (corrente degli spirituali), né su quella di Matteo
d'Acquasparta, che tende a rilassarla (corrente dei conventuali). Finalmente la
voce si presenta: è San Bonaventura da Bagnoregio, teologo, filosofo e mistico francescano,
coetaneo e compagno di studi di san Tommaso alla Sorbona, che si occupò con maggior
cura delle cariche che ricoprì, che delle cose mondane. Accanto a lui sono Illuminato
da Rieti e Agostino d'Assisi, che furono tra i primi seguaci di San Francesco. Con
loro stanno Ugo da San Vittore (rappresentante della scuola mistica ed autore di
opere filosofiche), Pietro Mangiadore (autore di opere religiose ritiratosi nel
monastero di San Vittore), Pietro Spano (nato in Spagna), di cui è rimasta fama
per la sua opera "Summulae logicales" in dodici libri (e fu anche papa con il nome
di Giovanni XXI). Seguono il profeta Natan, che rimproverò a Davide l'adulterio con
Betsabea e l'uccisione di suo marito Uria, San Giovanni Crisostomo, patriarca metropolitano
di Costantinopoli di grande eloquenza, Anselmo d'Aosta, famoso teologo e filosofo
che affermò la precedenza della fede sulla ragione ("credo ut intelligam"), Elio
Donato, famoso maestro di grammatica, che era la prima delle tre arti del Trivio,
Rabàno Mauro, autore di opere teologiche ed esegetiche, e il calabrese Gioacchino
da Fiore, che fondò il monastero di san Giovanni in Fiore nella Sila, e scrisse
opere di carattere visionario e profetico; in vita, Bonaventura criticò gli spirituali
Gioachiniani, come san Tommaso criticò Sigieri di Brabante, che gli sta accanto
nella prima corona: evidentemente Dante aveva una larghezza di pensiero in grado
di coinciliare i loro diversi insegnamenti. Conclude Bonaventura: ad elogiare il paladino
san Domenico mi ha spinto l'appassionata lode che Tommaso ha fatto di san Francesco,
e il suo discorso chiaro; e con me, si è mossa tutta questa seconda corona di spiriti beati.
Canto XIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XIII canto del Paradiso è ancora ambientato nel cielo del Sole, dove riprende la danza delle anime sapienti
intorno a Dante e a Beatrice. Chi desidera immaginare quello che videro, deve mentalmente
mettere insieme le quindici stelle più lucenti del cielo, insieme alle sette dell'Orsa
Maggiore (che formano il grande carro che resta visibile nel nostro emisfero in ogni stagione),
più le due stelle dell'Orsa Minore (o piccolo carro) che sono le più lontani dalla
stella Polare (intorno alla quale ruotano tutti i cieli), che possono essere viste
come l'imboccatura di un immaginario corno che ha la stella Polare come vertice.
Immagini di disporre queste stelle a formare due costellazioni concentriche a forma
di corona, come la "Corona Boreale" che mitologicamente si narra essere stata formata
quando morì Arianna, figlia di Minosse, e immagini queste due corone ruotare
in sensi opposti: questo non dà che una pallida idea della sua visione, perché nel
Paradiso tutto è così diverso da quello che noi siamo abituati a vedere, quanto il Primo Mobile,
il cielo che gira più velocemente degli altri,
è più rapido della Chiana, un fiume toscano
molto lento e all'epoca paludoso. L'inno che i beati cantavano non celebrava né Bacco
né Apollo ("Peana" è un nome di Apollo che poi indicò anche il canto in suo onore),
ma la Santissima Trinità, nelle tre persone dalla natura divina, una delle quali
(il figlio) ha, insieme alla natura divina, anche la natura umana. Una volta completato
il loro giro cantando, le anime si rivolgono di nuovo a Dante, e Tommaso, che già
aveva narrato la vita di San Francesco, riprende la parola: dopo aver risolto il
primo dubbio di Dante, che lo ha immagazzinato come fosse grano, la carità lo spinge
a risolvere anche il suo secondo dubbio. Infatti,
Dante pensa che Adamo, dal cui petto
Dio trasse la costola per formare il bel viso di Eva, la cui gola però fu così dannosa
a tutto il genere umano, ed anche Gesù Cristo, il cui petto fu forato sulla croce dalla
lancia del soldato romano, e il cui sacrificio ha permesso agli uomini di superare
il peso delle loro colpe, essendo stati generati direttamente da Dio, siano dotati di
ogni virtù al massimo grado possibile per la natura umana: per questo gli sembra
una contraddizione l'affermazione, riportata da Tommaso ma già presente nelle Scritture,
che nessuno fu mai sapiente come Salomone, che è la quinta luce nella stessa corona
di anime dove si trova Tommaso. Egli prosegue confermando a Dante che tutte le cose
create sono generate direttamente o indirettamente da Dio, la cui luce, specchiata
e filtrata in tanti modi diversi attraverso i nove cieli, arriva fino alla Terra
attenuata fino a produrre solo cose corruttibili e mortali (come Beatrice ci ha già
spiegato nell'ultima parte del VII canto). Così è corruttibile anche la materia
che compone il mondo e i corpi degli uomini (l'anima invece è sempre creata direttamente
da Dio, come ci ha già spiegato Stazio nel XXV canto del Purgatorio), e per questo
gli uomini nascono con ingegni diversi, come alberi diversi che dànno frutti diversi
(come ci ha già spiegato Carlo Martello nel canto VIII). La natura è mutevole e
presenta sempre qualche difetto, come la mano tremante di un artista, per quanto
egli sia esperto. Ciò che invece è creato direttamente da Dio è sempre perfetto,
così come fu creato Adamo (secondo
la Genesi, soffiando un alito di vita sulla polvere della terra), e Gesù Cristo
(da Maria fecondata dallo Spirito Santo). Così anche Tommaso sotto questo aspetto
è d'accordo con Dante, che allora vorrebbe chiedere in che modo si possa intendere
che Salomone ebbe una sapienza senza pari. A dire il vero, a noi moderni pare che
nella sua risposta Tommaso si metta a cavillare sulla sua stessa affermazione (che
poteva essere dunque più chiara sin dall'inizio): nella circostanza in cui Dio invitò
Salomone a chiedere una grazia, Salomone chiese di essere un re saggio. Non chiese
di essere depositario altri tipi di sapienza, come conoscere il numero dei motori
celesti (questione presa ad esempio di futile diatriba teologica), o se da una cosa
necessaria ed una contingente possa dedursi un'altra cosa necessaria (questione
logica) o se sia possibile ammettere che esista un moto che non abbia come causa
un moto precedente (questione fisica), o se sia possibile inscrivere in un semicerchio
un triangolo che abbia un lato lungo il diametro e non sia rettangolo (questione
geometrica), tutte questioni che è inutile cercare di dimostrare: a Salomone
fu concesso di non avere pari in "regale prudenza", e quindi
l'affermazione precedente di Tommaso va intesa nell'ambito di questa restrizione, che dunque si applica solo
ai re, che sono molti, ma pochi di essi sono buoni. Conclude Tommaso: questo esempio
sia da lezione a Dante di come occorra muoversi con i piedi di piombo nelle questioni
che non si conoscono bene, perché è da stolti giudicare superficialmente "ad ogni
piè sospinto", e l'opinione pubblica facilmente si convince di cose sbagliate, e
poi si affeziona ai propri pregiudizi. Ma in questo modo si creano errori che producono
molto danno, come provano le idee sbagliate di Parmenide, Melisso e Brisso (Melisso
era un seguace del filosofo Parmenide ed Aristotele criticava entrambi per le premesse errate
da cui muovevano i loro ragionamenti, ed anche per i metodi scorretti che adottavano
nelle loro deduzioni; Brisso o Brisone era un seguace di Euclide che Aristotele
criticava per la sua soluzione errata al problema della quadratura del cerchio).
Così fecero Sabellio (eretico che negava la Trinità) e Ario (eretico che negava
la natura divina di Cristo, anche se ammetteva la sua partecipazione alla grazia
divina), che deformarono il contenuto delle scritture come volti deformati (o forse deturpati)
dalle lame delle spade. Ammonizione finale di Tommaso: le genti non siano
troppo sicure a giudicare, come colui che stima il raccolto prima che sia maturato:
Da uno sterpo intirizzito nell'inverno può a primavera nascere una rosa, mentre
una nave che ha affrontato in modo sicuro il mare, può naufragare all'imboccatura
del porto. Non credano donna Berta e ser Martino (nomi comuni popolarmente intesi
come esempi di saccenteria presuntuosa, come noi diremmo "un Tizio Caio o un Pinco
Pallo qualsiasi"), per aver visto uno rubare, un altro fare pie offerte, di poter
prevedere il giudizio che Dio darà ad ognuno di loro: il ladro potrebbe sempre salvarsi,
ed il benefattore essere dannato.
Canto XIV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XIV canto del Paradiso inizia con una similitudine che a noi moderni richiama
subito le onde sonore, ma che ai tempi di Dante aveva come precedente solo il trattato
sulla musica di Severino Boezio: come le onde in una bacinella divergono dal centro
al cerchio, se si colpisce il centro, o dal cerchio al centro, se si colpisce il
bordo della bacinella, così Dante immagina la voce di Beatrice, vicino a lui, rispondere
a quella di Tommaso, nella corona di anime che li circonda, per anticipare a loro
un dubbio che Dante non ha ancora neanche pensato, e cioè, poiché sappiamo che dopo
il Giudizio Universale i corpi resusciteranno per riunirsi con le anime, se in quel
momento la luce che li riveste si farà più intensa, e in tal caso, come faranno
i loro occhi corporei a sopportarne la vista. La domanda suscita nelle anime un
nuovo moto di letizia, con un nuovo canto la cui dolcezza non può essere immaginata
da chi sopporta ancora le fatiche della vita: a qualsiasi merito sarebbe giusta
ricompensa, quel canto che celebrava Dio come Padre, Figlio e Spirito Santo, in
tre persone, due nature (la natura divina e umana di Cristo) e una sostanza. Dal
cerchio più vicino si leva poi una voce reverente quanto quella dell'Arcangelo Gabriele
per l'Annunciazione a Maria, e che viene identificata con quella di Salomone (la
luce più divina, ovvero la più risplendente, come era stato detto da Tommaso al
momento della sua presentazione). Egli spiega: "la nostra luce si irradierà per
sempre. La sua luminosità è causata dall'ardore di gratitudine verso Dio, e la gratitudine,
dalla profondità della nostra visione di Lui, che è tanta quanto la grazia divina
ci concede oltre il nostro merito. Quando anche la carne rivestirà la nostra persona,
la nostra gratitudine aumenterà ancora, e questo accrescerà la grazia illuminante
che il sommo bene, Dio, ci dona, permettendoci così di vedere Lui più profondamente,
e quindi aumentare ancora il nostro ardore di gratitudine, e di conseguenza la nostra
luminosità. Ma come il carbone che sprigiona la fiamma riesce a rimanere visibile
perché la sua luce è più intensa, così il fulgore che oggi ci circonda sarà vinto
dalla luminosità del corpo, lo stesso che oggi giace ricoperto di terra. Tuttavia,
tanta luce non affaticherà i nostri occhi, perché tutti gli organi di senso saranno
resi idonei a reggere tanta grazia". A questo punto, un coro di "Amen" ("Amme",
in una forma dialettale di tono quasi infantile) sembra dare a Dante un indizio
del desiderio che, sia pure nella loro beatitudine, nutrono queste anime celesti;
forse, egli suggerisce, non tanto per loro, ma per le loro mamme e gli altri parenti,
che potranno vedersi di nuovo come furono prima di morire. A questo punto, dall'orizzonte
sembrano levarsi tante altre anime, che appaiono gradualmente come le stelle che
iniziano a farsi riconoscere dopo il tramonto. In breve la loro luminosità, che
rispecchia lo sfavillare dello Spirito Santo, cresce fino a diventare accecante,
e Dante deve distogliere lo sguardo. Egli lo rivolge allora al volto di Beatrice,
così bello da superare la capacità della mente di ricordarlo, e tramite suo Dante
risolleva gli occhi, e in un attimo si trova trasportato nel prossimo cielo, che
è quello di Marte, dalla luminosità rossa come il fuoco, dove incontrerà gli spiriti
che combatterono per la fede. Dante ringrazia Dio offrendosi a Lui con tutto l'ardore
del suo petto, fino ad esserne esausto: ma l'accettazione del suo sacrificarsi gli
è manifestato dall'apparirgli di un luccichio di anime splendenti e rosse all'interno
di due raggi di luce posti a croce, tanto da fargli ammirare Dio (qui chiamato "Eliòs"
mischiando la parola greca che significa "Sole" con quella ebraica che significa
"Dio"), per come le abbia adornate, o rivestite (in francese "adober" significava
"armare cavaliere"). Queste luci compongono una figura di croce a bracci uguali
(come quella che divide i quadranti di un cerchio) , costellandola in modo simile
alle stelle più e meno luminose situate lungo la fascia verticale che la Galassia
traccia nel cielo. In un modo che Dante si dichiara incapace di descrivere, all'interno
di quella croce lampeggiava la figura di Cristo, ma si attende di essere scusato
da chi, seguendo Cristo nel suo sacrificio per gli altri, avrà la grazia di ammirare
anche lui quella visione. Lungo il braccio orizzontale e quello verticale si muovevano
le luci delle anime, che incontrandosi aumentavano di luminosità. In modo simile
si possono vedere le particelle di pulviscolo muoversi nel raggio illuminato che
trapela da una fessura, quando si sta al riparo del sole all'ombra di qualche rifugio.
E come la musica prodotta dalla giga o dall'arpa (la giga era un altro strumento
con molte corde che potevano essere suonate insieme), che è soave anche per chi
non riesce a distinguere le singole note, così quelle luci cantavano una melodia
che rapisce Dante anche se non riesce a intendere se non che "Resurgi" e "Vinci",
riferite a Gesù Cristo. Dante afferma di non aver mai visto una cosa che lo rapisse
con maggiore dolcezza. Poi però precisa a chi pensa che egli dimentichi di come
sia incantato dagli occhi di Beatrice, che fino a quel momento non li aveva ancora
rimirati di nuovo, e dunque la sua affermazione può essere giustificata, perché
anche lo sguardo di Beatrice, come tutto ciò che vede in Paradiso, è destinato ad
apparirgli sempre più bello.
Canto XV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Con il XV canto del Paradiso ha inizio la trilogia di Cacciaguida, l'antenato di
Dante che morì verso il 1147
combattendo nella seconda crociata (1147-1149), al seguito di Corrado
III Hohenstaufen, e per questo è collocato nel cielo di Marte, riservato agli spiriti
combattenti per la fede. I tre canti che ricopre il suo dialogo con Dante sono quelli
centrali del Paradiso, e in essi Dante ribadisce la propria missione politica e
morale. Il canto dei beati si interrompe come se fossero corde di una lira suonata
da Dio. Questa sincronia fa riflettere Dante: se esse tacquero assieme per ascoltarmi,
sicuramente saranno pronte ad ascoltare le preghiere dei meritevoli; e chi, per
amore di beni illusori, si priva di quell'amore vero, merita una pena senza fine.
Dal braccio destro della croce si muove un'anima, simile a una stella cadente per
luminosità e velocità, percorrendo prima il braccio e poi il tronco fino ai piedi
della croce. Poi si rivolge con affetto verso Dante, similmente a come, secondo
Virgilio, venne incontro l'ombra d'Anchise al figlio Enea nei campi Elisi, e inizia
a parlare in latino: "O sangue del mio sangue, o sovrabbondante grazia divina, a
chi come a te si aprirono due volte le porte del cielo?" (noi sappiamo che già nel
secondo canto dell'Inferno, Dante aveva detto a Virgilio: "io non sono Enea, io
non sono San Paolo", e non a caso Dante ha appena citato Enea ed Anchise). Dante
si volge con stupore verso Beatrice, ma il suo stupore aumenta fino a fargli credere
di aver raggiunto il culmine della beatitudine, vedendo come era cresciuta la sua
bellezza. Lo spirito continua a parlare, rivolgendosi a Dio con concetti tanto elevati
che Dante non è in grado di intenderli, poi quando il suo ardore torna ad un livello
intellegibile anche ai mortali, le prime parole che Dante capisce sono di ringraziamento
verso Dio, per essere stato così generoso con la sua discendenza; poi torna a rivolgersi
a Dante: "Figlio mio, hai sciolto un'attesa che iniziò appena vidi nell'immutabile
volontà di Dio che eri destinato a venire qui, grazie a Beatrice che te ne ha dato
le capacità. So che credi che io possa vedere il tuo pensiero in Dio, e di anticiparlo
così come è possibile derivare dal concetto di uno, anche gli altri numeri, e per
questo non mi chiedi perché io sia più gioioso degli altri nell'accoglierti. È vero,
ma per adempiere meglio ciò che deve essere, dai voce sicura, balda e lieta al tuo
desiderio, a cui è già pronta la mia risposta". Di nuovo Dante si volge verso Beatrice,
e un suo sorriso lo incoragga a parlare, dapprima scusandosi se la sua capacità
di esprimersi non è all'altezza di quella dei beati, che ricevono da Dio intelletto
e sentimento in modo uguale, mentre lui non riesce a ringraziare adeguatamente quanto
vorrebbe dentro al suo cuore. Poi chiede a lui, gemma preziosa in questo prezioso
gioiello del cielo di Marte, di fargli conoscere il suo nome. E lo spirito ricomincia:
"O discendente in cui mi sono compiaciuto già solo aspettandoti, io sono stato la
tua radice. Colui da cui il tuo cognome ha avuto origine, che gira da cent'anni
nella prima cornice del Purgatorio (quella dei superbi), fu mio figlio e tuo bisnonno.
È opportuno che tu alleggerisca le sue pene con la tua opera". Poi inizia il ritratto
della Firenze antica in cui egli nacque: "Firenze era ancora tutta dentro la prima
cerchia di mura, dove si trova la Badia che ancora oggi suona le ore, e stava in
pace, sobria e pudica. Le donne non indossavano ornamenti che fossero più vistosi
della loro persona stessa. Non c'era l'uso di dare doti così alte alle figlie, per
cui oggi la nascita di una femmina è ritenuta una disgrazia. Non c'erano case così
sfarzose da essere troppo grandi, e quindi con tante stanze vuote; non dilagava
la lussuria per cui era famoso il re assiro Sardanapalo; la città non si era ingrandita
rapidamente e con sfarzo verso il colle Uccellatoio, superando il Montemalo (o Monte
Mario) di Roma, che però, come è stato superato nel crescere, così sarà superato
anche nella decadenza. Ho potuto vedere i nobili delle migliori casate, Bellincione
Berti, i Nerli i Vecchietti, andare vestiti in modo sobrio, e le loro donne non
usare il trucco, e badare ai lavori di filatura domestica. Non dovevano temere di
morire in esilio, o di essere lasciate a lungo sole per i commerci del marito estesi
fino in Francia. Una accudiva il bimbo nella culla, parlandogli con i versi che
divertono i giovani genitori; l'altra, mentre filava, raccontava ai figli e ai servi
le antiche storie dei troiani, di Fiesole e di Roma. Una Cianghella (donna dissoluta
della Firenze di Dante), o un Lapo Salterello (uomo pubblico disonesto), avrebbero
suscitato allora tanta meraviglia quanta oggi ne susciterebbero personaggi integri
ed onesti come Cincinnato e Cornelia (la madre dei Gracchi). In una tale idilliaca
Firenze sono nato, mentre mia madre implorava il nome di Maria, e nel Battistero
diventai cristiano e mi fu dato il nome di Cacciaguida. Mio fratello fu Moronto
ed Eliseo (non è chiaro se sono due fratelli o due nomi dello stesso fratello),
mia moglie venne dalla val Padana, e dal suo casato diedi nome al figlio da cui
poi è derivato il tuo cognome. Poi ho seguito l'imperatore Corrado, che servii tanto
bene che volle farmi cavaliere. Insieme a lui sono andato a combattere in Terrasanta,
dove gli infedeli che occupano ingiustamente i luoghi che i Papi dovrebbero avere
più cura di proteggere, mi uccisero in battaglia, sciogliendomi dai legami di questo
mondo illusorio, per amore del quale si perdono tante anime; e dal martirio, sono
stato assunto direttamente alla pace di questo cielo".
Canto XVI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XVI canto del Paradiso generalmente non è tra quelli che si studiano a scuola, perché contiene
un elenco di nomi di antiche famiglie fiorentine, che per noi risultano poco significative,
anche se all'epoca di Dante erano ancora vive nella memoria di tutti. L'esercizio
che Dante affronta in questo canto è quello
di fare poesia con l'equivalente di un elenco telefonico... Il canto si apre con il
rammarico di Dante di essersi sentito orgoglioso nell'apprendere della sua nobile
ascendenza, cosa che in Paradiso dovrebbe ritenersi una vanità superata. Per questo
comprende come qui sulla terra la vanagloria sia ancor più difficile da dominare,
e paragona la nobiltà come un mantello che si accorcia con il tempo, se non si provvede
ad allungarlo aggiungendo nuovo panno, ossia esercitando la nobiltà d'animo che
dovrebbe essere sempre accompagnata alla nobiltà ereditaria. Così inizia a rivolgersi
a Cacciaguida usando il "voi" in segno di reverenza, cosa poco opportuna in Paradiso,
per cui Beatrice interviene con una risatina di compatimento che ricorda a Dante
la dama di Malehaut che, tossendo, palesò la sua presenza durante il primo colloquio
compromettente tra Lancillotto e Ginevra. Dopo aver espresso a Cacciaguida la propria
contentezza nell'apprendere quanto gli ha detto, non disgiunta però dalla sua capacità
di contenerla con un contegno adeguato, gli chiede chi furono i suoi avi, quando
egli nacque, quanti erano gli abitanti di Firenze a quell'epoca, e quali erano le
famiglie più in vista. La luce di Cacciaguida si ravviva ed inizia la lunga risposta,
"non con questa moderna favella", ossia parlando in un italiano più antico di quello
in cui Dante ce lo ha trascritto. Per prima cosa specifica il suo anno di nascita:
"Dal giorno in cui l'arcangelo Gabriele annunciò la concezione di Maria al giorno
della mia nascita, questo pianeta Marte è transitato nella costellazione del Leone,
da cui viene alimentato, cinquecentocinquanta più trenta volte"; a conti fatti,
considerando che l'anno di Marte dura 687 giorni terrestri, l'anno di nascita risulta
essere il 1091, che concorda con quanto dice Cacciaguida a proposito della sua partecipazione
alla crociata del 1147 con Corrado III. Poi accenna brevemente ai suoi avi: "Essi
nacquero, come me, all'inizio di Sesto di Porta San Pietro, l'ultimo attraversato
dal vostro annuale palio di san Giovanni". Si tratta di via degli Speziali, una
traversa di via dei Calzaiuoli, tra la piazza del Duomo e piazza della Signoria.
Preferisce non aggiungere altro, forse per non alimentare la vanagloria che aveva
preso Dante, ma si capisce che Dante stesso non aveva altre informazioni da mettergli
in bocca. Prosegue
Cacciaguida: "i cittadini adatti a portare le armi, tra il Ponte Vecchio (dove si
trovava un'antica statua di Marte) e il battistero di San Giovanni (cioè al limite
nord della prima cerchia di mura di Firenze), erano un quinto di coloro che sono
vivi adesso". Le stime sul numero effettivo dei cittadini di Firenze nel 1100 e
nel 1300 sono discordi, ma quelle più recenti li attestano in 20.000 e 100.000 rispettivamente;
comunque il rapporto 1 a 5 è generalmente condiviso. Poi inizia la rassegna dei
cittadini più illustri dell'epoca, costellata di allusioni che a volte non siamo
in grado di decifrare, e soprattutto pervasa di disappunto per la crescita troppo
rapida che ha causato il degrado di Firenze, temperato tuttavia da un senso di accettazione
del disegno divino, per cui ogni cosa, compresa la gloria
delle città e delle grandi famiglie, è destinata a perire: "La confusione delle
persone è sempre un malanno per le città, come per l'uomo lo è il mangiare del cibo
quando ancora non ha digerito il cibo precedente; un toro cieco capitola prima di
un agnello cieco; e spesso taglia più e meglio una sola spada invece che cinque.
Se vedi come anche le città possono essere abbandonate e scomparire,
non ti sembrerà strano che anche intere famiglie possano avere termine. Tutte le
cose muoiono come muore ogni uomo, ma per alcune non possiamo accorgercene, a causa
della brevità della nostra vita. Come le maree causate dalla Luna coprono e scoprono
le coste senza posa, così fa la fortuna con Firenze, e così non deve sembrarti strano
che alcune di queste grandi famiglie siano sparite". Sarebbe troppo prolisso riportare
un resoconto di tutti i nomi delle famiglie citate. Basterà riprendere la parte finale, che si riferisce
all'evento che accese la miccia delle sanguinose lotte tra Guelfi e Ghibellini:
Buondelmonte dei Buondelmonti, la cui famiglia era venuta in Firenze in seguito
alla distruzione del loro castello di Montebuoni in val di Greve, ruppe il fidanzamento
con una giovane della famiglia degli Amidei, per sposare la figlia di Gualdrada
Donati. Per vendicare l'affronto, gli Amidei fecero uccidere Buondelmonte proprio
davanti all'antica statua di Marte, dando inizio alla lunga faida tra Ghibellini
(dalla parte degli Amidei) e Guelfi (dalla parte dei Buondelmoni e dei Donati).
"O Buondelmonte" conclude Cacciaguida, "quanto sarebbe stato meglio che tu fossi
affogato nell'Ema (il fiume che divide Firenze dalla val di Greve) la prima volta
che lo hai attraversato! Ma era destino che Firenze sacrificasse una vittima alla
statua di Marte, ponendo fine ai suoi anni di pace. Con queste famiglie io ho vissuto
l'epoca gloriosa di Firenze, il cui stemma non fu mai rovesciato nella polvere dai nemici in battaglia,
né divenne mai rosso di sangue per le divisioni interne", alludendo al fatto che
dopo la vittoria dei Guelfi del 1251, lo stemma di Firenze, da giglio bianco in
campo rosso, fu mutato in giglio rosso in campo bianco.
Canto XVII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XVII canto del Paradiso è il canto centrale di tutta la cantica, e dunque non
è un caso che Dante disponga proprio qui la dichiarazione esplicita della sua missione
di poeta, che consiste nella critica alla società del suo tempo, denunciando senza
reticenze ogni corruzione, e proprio per questo egli ha avuto l'opportunità di incontrare
tante anime famose nel suo viaggio ultraterreno. In apertura del canto, Dante si descrive con lo stesso
stato d'animo con cui Fetonte, a cui era stato insinuato che non fosse veramente
figlio di Apollo, si rivolse alla madre Climène per conoscere la verità (e per questo
poi egli chiese ad Apollo di lasciargli guidare il carro del Sole, con cui però
fu fulminato da Giove, per aver deviato dal retto cammino, e ciò induce ancora i
padri a non cedere a tutte le richieste dei figli); Beatrice e Cacciaguida se ne
rendono conto, e sanno già anche cosa egli vorrebbe chiedere, ma Beatrice lo invita
a rendere esplicita la sua richiesta, perché egli si abitui a chiedere ciò di cui
ha bisogno (consiglio che peraltro si rivelerà opportuno nel suo futuro esilio che
gli sta per essere annunciato). Così Dante si rivolge a Cacciaguida (tornando al
"tu", visto che il "voi" del precedente canto aveva sollevato qualche imbarazzo):
"O mia cara radice ("piota" sta per "pianta del piede", e quindi per "radice"),
tu che vedi in Dio le cose terrene con la stessa chiarezza con cui noi mortali vediamo
che un triangolo non può avere due angoli ottusi, aiutami a comprendere le parole
gravi sulla mia vita futura che mi sono state dette quando, insieme a Virgilio,
sono venuto su per il Purgatorio e sono sceso per l'Inferno; per quanto mi senta
forte contro le avversità, una saetta prevista colpisce con meno forza". Cacciaguida
non risponde con espressioni oscure (ambage) tipiche degli oracoli che confondevano
gli uomini prima della venuta di Cristo, ma con parole chiare e semplici ("latin",
come altrove nella Commedia, non sta per "lingua latina", ma per "linguaggio facilmente
comprensibile"): "Tutto ciò che accade nel vostro mondo è visibile eternamente in
Dio, anche se non per questo ha caratteristica di necessità (ossia non pregiudica
il libero arbitrio umano), come l'osservare una barca che scende da un fiume impetuoso
non ne altera il tragitto. Così, vedo il tempo che ti si prepara come se ascoltassi
una musica d'organo. Come Ippolito, figlio di Teseo, fu cacciato da Atene a causa
delle false accuse che la matrigna Fedra gli rivolse, perché lui aveva respinto
le sue illecite lusinghe, così sarà opportuno che tu parta da Firenze, come già
si cerca di ottenere là dove Cristo viene mercanteggiato ogni giorno (nella Curia
papale). Come al solito, la colpa sarà addebitata alla parte offesa, ma la punizione
di Dio testimonierà la verità. Dovrai lasciare le cose più care, e dovrai provare
quanto è amaro il pane altrui, e come è faticoso e difficile lo scendere e il salire
per le scale altrui (per chiedere ospitalità). Ma la cosa che più ti dispiacerà,
sarà vedere la malvagità e la stoltezza degli altri Guelfi Bianchi esiliati insieme
a te, così che anche loro ti si metteranno contro; ma saranno loro a doverne pagare
le conseguenze con il sangue (probabile riferimento al tentativo detto "della Lastra"
di rientrare a Firenze nel 1304, a cui Dante non partecipò); per te sarà motivo
di onore l'aver fatto "parte per te stesso" (forse proprio a partire dal suo dissenso
a quel tentativo). Il tuo primo ospite sarà un grande signore Lombardo che ha per
stemma una scala con l'aquila imperiale (Bartolomeo della Scala, signore di Verona,
che pare aver modificato lo stemma, originariamente con la sola scala, dopo le sue
nozze con Costanza, pronipote di Federico II). Egli sarà così benevolo, da prevenire
le tue richieste prima che tu le formuli. Presso di lui vedrai un giovanetto che
ha su di sé una così forte impronta di questo pianeta Marte, da fare cose destinate
ad essere notate da tutti, anche se adesso ha solo nove anni (il fratello minore
Cangrande della Scala, che successivamente ospiterà Dante in un suo secondo ritorno
alla corte degli Scaligeri, con tale magnanimità che Dante gli ha dedicato la cantica
del Paradiso). Prima che il papa Clemente V Guascone inganni l'imperatore Arrigo
VII (nel 1312 favorì la sua discesa in Italia, poi invitò i Guelfi a combatterlo),
il suo valore si inizierà a manifestare, nel non curarsi né delle ricchezze, né
delle fatiche militari, e diventerà tale, che anche i suoi nemici non potranno negare
la sua grandezza. Affidati a lui, che cambierà lo stato di poveri e ricchi" e Dante
aggiunge che disse ancora su di lui cose incredibili persino a coloro le vedranno,
ma che egli non può riferire (si rispecchiano qui le speranze che Dante confidava
in Cangrande della Scala anche nel momento in cui scriveva questi versi, probabilmente
nel 1318). Conclude Cacciaguida: "Queste sono le insidie che ti aspettano, ma non
odiare i tuoi concittadini, che saranno puniti prima che finisca la tua vita (o
la tua fama)". Come Dante si rende conto che egli ha finito di esporre la trama
della sua vita futura, richiede ancora un consiglio come si desidera da una persona
di cui si ha fiducia perché conosce bene le cose, vuole le cose giuste e ci vuole
bene: "Vedo come il tempo stia per colpirmi, per cui dovrò essere previdente, per
non perdere la disponibilità dei miei ospiti a causa dei versi che scriverò. Giù
per l'Inferno, e poi su per il Purgatorio, dalla cui cima mi hanno sollevato gli
occhi di Beatrice, e anche qui nei cieli del Paradiso, ho appreso cose che a molti
non piacerà sentire ("agrume" stava allora per ortaggi come aglio e cipolla); ma
se le taccio, temo che non meriterò di essere ricordato dai posteri". Cacciaguida
si illumina come il sole riflesso in uno specchio d'oro, e poi risponde: "Solo chi
ha la coscienza offuscata per non voler vedere le proprie colpe o dei propri congiunti
sarà colpito dalle tue parole, ma tu non mentire, e manifesta ogni tua visione,
lasciando che si lamenti chi deve dolersene; anche se la tua voce darà fastidio
al primo assaggio, porterà un nutrimento vitale quando sarà digerita. Sarà come
il vento, che sferza più forte le cime più alte, che è già cosa degna di onore;
ed è proprio per questo che ti sono state mostrate tutte le anime famose che hai
incontrato, perché l'animo di chi ascolta non pone fiducia agli esempi di sconosciuti,
o ad argomenti che non siano evidenti". Con questo Dante risolve, per chi se la
fosse posta, la questione del come mai abbia sempre avuto, per tutta la Commedia,
l'opportunità di imbattersi in tutti quei personaggi ben conosciuti, in mezzo alla
sterminata moltitudine che popola "il mondo dei più".
Canto XVIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XVIII canto del Paradiso inizia con una pausa in cui Cacciaguida e Dante ripensano alle importanti cose appena
dette nel canto precedente. Beatrice si accorge della preoccupazione di Dante e
lo conforta, come già faceva Virgilio: "Pensa che io sono vicina a Dio, che allevia
ogni ingiustizia". Dante la guarda e la vede così bella che rinuncia a descriverlo,
tanto risplendeva nel suo viso il riflesso dell'amore di Dio. Lei gli sorride e
lo invita a guardarsi intorno: "...che non pur ne' miei occhi è paradiso". Dante
si volge allora a Cacciaguida, e riconosce la sua volontà di parlargli ancora. Ed
infatti, prima di accommiatarsi da lui, Cacciaguida vuole indicare a Dante alcune
anime del cielo di Marte che sarebbero degne di essere ricordate in poemi eroici
(quasi presagisse la scrittura dell'"Orlando furioso" e della "Gerusalemme liberata"...).
Le anime si muovono man mano che Cacciaguida le nomina. Il primo è Giosuè, che dopo
la morte di Mosè coindusse gli ebrei alla terra promessa; poi Giuda Maccabeo, la
cui anima rotea come una trottola, che liberò gli Ebrei dalla tirannide del re di
Siria; poi Carlo Magno e Orlando, che difesero l'occidente cristiano dalle incursioni
degli arabi; poi Guglielmo d'Orange che combatté insieme a Carlo Magno, e Renoardo,
che pare sia solo un personaggio letterario che in alcune "chanson de geste" (che
furono le fonti di Dante) è un fedele compagno di Guglielmo, rappresentato come
un forzuto che combatte con la clava. Infine altri due personaggi storici, Goffredo
di Buglione che capitanò la prima crociata e riconquistò Gerusalemme, di cui però
non volle essere re, ma preferì essere titolato come "difensore del santo sepolcro",
e Roberto Guiscardo, che nel 1059 fu nominato dal papa Niccolò II duca di Puglia,
Calabria e Sicilia, ancora sotto la dominazione dei bizantini e degli arabi, ma
che poi egli riuscì a riconquistare. Poi Cacciaguida si ricongiunge alle altre anime,
riprendendo il loro canto corale, in cui si dimostra essere uno dei migliori. Di
nuovo, Dante si volge verso Beatrice, ed i suoi occhi gli appaiono così puri e gioiosi
da vincere anche il suo aspetto precedente. Come l'uomo sente un maggior piacere
mentre di giorno in giorno si comporta onestamente, sentendo in lui crescere la
virtù, così dall'accresciuta bellezza di Beatrice Dante si accorge di essere istantaneamente
salito al cielo superiore, quello di Giove, che ha una circonferenza maggiore del
precedente. La luce intorno, da rossa che era nel cielo di Marte, si è fatta bianca
come la pelle di una donna che recuperi il suo candore naturale dopo essere arrossita
dal pudore. Ed ecco che le anime luminose di Giove volano intorno a lui componendo
delle lettere e fermandosi tra una e l'altra. Dante inizia a leggere: "D", "I",
"L"... Chiede alla Musa di aiutarlo a riprodurre ciò che vide (la musa è indeterminata,
ma è chiamata "Pegasea" perché il mito vuole che il cavallo alato Pegaso, dando
un calcio alla cima del Parnaso Elicona, dove risiedevano le muse, fece scaturire
la fonte Ippocrene, simbolo dell'ispirazione poetica). Riprende con coincisione:
vide trentacinque lettere, divise in due parti, quella iniziale era "DILIGITE IUSTITIAM",
e quella finale era "QUI IUDICATIS TERRAM". Si tratta del primo versetto del biblico
Libro della Sapienza, tradizionalmente attribuito a Salomone: "Amate la giustizia,
voi che governate la terra"; e le anime di questo cielo sono appunto quelle di coloro
che furono giusti in vita. La figura della "M" finale, che pareva d'oro sullo sfondo
argenteo di Giove, deve essere immaginata in alfabeto gotico somigliante alle tre
punte di un forcone rivolte verso il basso. Essa non svanisce, ma si completa con
altre anime che formano una specie di giglio sulla sua sommità, che poi si precisano
disegnando la testa ed il collo di un'aquila, mentre anche le altre anime che formano
il corpo si dispongono in modo adeguato alla nuova rappresentazione. Dante considera
che, poiché è Dio stesso a guidare questo disegno celeste, più che rappresentare
un'aquila, esso rappresenta direttamente quell'archetipo universale da cui le aquile
stesse prendono la loro "virtù formativa", di cui abbiamo già appreso nel XXV canto
del Purgatorio e nel VII canto del Paradiso. Ossia, quest'aquila non è "meno aquila"
delle aquile vere! L'aquila rappresenta inoltre anche il potere imperiale, che dovrebbe
amministrare la giustizia sulla terra. Dante allora prega Dio che veda il male,
il "fumo" che impedisce il benefico influsso di Giove di raggiungere la terra, e
intervenga per scacciare una seconda volta i mercanti dal tempio, e chiede alle
anime del cielo di Giove di pregare per chi viene sviato dal cattivo esempio dei
pontefici corrotti. L'accusa di Dante si puntualizza probabilmente verso il papa
Giovanni XXII, in carica nel momento in cui fu scritto il canto: prima si faceva
la guerra con le spade, ora si fa togliendo il pane (dell'Eucarestia) che Dio non
toglie a nessuno (ossia, infliggendo scomuniche arbitrarie). Ma tu (Giovanni XXII)
che scrivi solo per cancellare (cioè per revocare le scomuniche in cambio di benefici
materiali, anche se ciò non è storicamente esatto, oppure per revocare benefici
ecclesiastici a vescovi e abati per avocarli alla Santa Sede), ricordati che san
Pietro e san Paolo, che morirono per la stessa Chiesa che tu guasti, in realtà sono
ancora vivi in Paradiso... anche se puoi tu ben dire "io desidero solo colui che
visse nel deserto, e che subì il martirio per il ballo (di Salomè, ossia san Giovanni
Battista, la cui immagine era riprodotta sul fiorino), e non conosco il pescatore
(san Pietro) e né Polo (forma volgare e dispregiativa di Paolo)". E forse in questa
storpiatura si può riconoscere la pronuncia francese di "Paul" di Giovanni XXII,
al secolo Jacues Duèze, nativo di Cahors, nel sud della Francia.
Canto XIX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel XIX canto del Paradiso, davanti a Dante si presenta l'aquila che rappresenta
la giustizia, composta come un mosaico dalle anime che fruiscono della beatitudine
nel cielo di Giove, ognuna delle quali pare un piccolo rubino che riflette la luce
del sole. Dante deve ora riferirci una visione mai concepita prima: non solo la
forma ed il movimento, ma anche la voce dell'aquila composta dai beati è una sola,
e parla usando il singolare, rappresentando la personificazione della giustizia
stessa. Dice: "Sono qui a godere della gloria che supera ogni desiderio, perché
in vita fui giusto e pio; la memoria che ho lasciato sulla terra è tale che anche
i malvagi la lodano, anche se sono incapaci di seguire il mio esempio". La voce,
dice Dante, era una, come uno è il calore che emana da molte braci. Poi prende la
parola: "O fiori di letizia eterna, che vi manifestate con un unico profumo, risolvetemi
il dubbio che sulla Terra ho cercato inutilmente di comprendere; so che anche se
gli angeli dell'ordine dei Troni che fanno da specchio alla giudizia divina risiedono
in un altro cielo (quello di Saturno), anche voi, che siete beati per aver amministrato
bene la giustizia sulla terra, la comprendete senza alcun ostacolo. Sapete con quanta
attenzione vi ascolto, e sapete quale è il dubbio che mi assilla". Come gli altri
beati, anche le anime di questo cielo possono leggere in Dio qual è il pensiero
di Dante. L'immagine dell'aquila si pavoneggia allora come un falcone da caccia
quando gli sia stato tolto il cappuccio, esprimendo così la letizia dei beati, e
intona un canto la cui bellezza può essere compresa solo da chi ha meritato il Paradiso.
Poi risponde: "Colui che tracciò con il compasso i confini dell'universo, in cui
poi mise tante cose occulte e tante cose manifeste, non poté riversare nella sua
creazione tanto valore, che non fosse infinitamente superato dal suo concetto divino.
Ne è la prova che Lucifero, che riunì in sé quanto di più perfetto potesse esserci
in una creatura, per la sua superbia cadde ancora imperfetto, in quanto non fu capace
di attendere la grazia divina. La vostra ragione è come un solo raggio della luce
di Dio, e non può discernere molto oltre da quanto gli è vicino. La vostra vista
si inoltra come nell'acqua del mare: dove è bassa, riconoscete il fondo, ma in mare
aperto non potete vederlo, anche se sapete che c'è. L'unica verità viene da Dio,
ciò che deriva da altro è veleno per i vostri sensi. Adesso ti è stato rivelato
il nascondiglio della verità per l'assillante questione che ti eri posto: un uomo
che nasce sulle rive dell'Indo, dove nessuno conosce Cristo e ne trasmette l'insegnamento,
anche se vive con buona volontà e senza peccato, se muore non battezzato, è comunque
condannato. Che giustizia è questa? Qual è la sua colpa?... Ma chi sei tu, piuttosto,
che vuoi salire in cattedra, e giudicare cose lontane mille miglia, vedendo solo
le cose a una spanna da te. Certamente, se voi non aveste le Sacre Scritture come
guida, chi sottilizza sulla giustizia avrebbe straordinarie ragioni per dubitare.
O anime terrene! o menti ottuse! La volontà divina è buona per sé stessa e non è
mai mutata. È giusto soltanto ciò che a lei si conforma: nessun bene creato la attrae
a sé, ma è da essa che deriva ogni bene". Questa è la posizione di Dante e della
filosofia del suo tempo, all'antico problema già posto da Platone: Dio vuole il
bene perché è bene, o il bene è tale perché è ciò che vuole Dio? Finito di parlare,
l'immagine dell'aquila si anima di nuovo in un volo a circolo sopra Dante, che la
rimira con gratitudine come un cicognino appena nutrito guarda la madre che volteggia
sul nido. E intanto, canta una altro inno: "Per te i miei canti sono incomprensibili,
come è incomprensibile la giustizia divina per voi mortali". Poi l'immagine si ricompone
nella posa del simbolo dell'aquila romana, e ricomincia: "Qui non è mai salito chi
non ha creduto in Cristo, né prima né dopo il suo martirio sulla croce; ma anche
se molti gridano il suo nome, non tutti entreranno nel regno dei cieli, e il giorno
del giudizio potranno trovarsi più lontani di chi non l'ha conosciuto. Quando le
anime dannate saranno divise da quelle beate, chi è cristiano solo esteriormente
potrebbe essere giudicato severamente da chi è nato in Etiopia, e dunque privo della
possibilità di essere cristiano. Anche i persiani senza la vera fede, cosa potranno
dire ai vostri re corrotti, quando sarà aperto il libro della giustizia divina,
dove tutti potranno leggere le colpe e i meriti di ogni uomo?". Qui inizia la tirata
conclusiva del canto, in cui sono elencati quasi tutti i sovrani europei, anche
se alcuni di loro, in realtà, furono migliori di come li dipinge Dante, che probabilmente
dei più lontani aveva notizie un po' vaghe. La penna di Dio segnerà tra le colpe
di Alberto d'Austria l'invasione ingiustificata della Boemia; Filippo il Bello,
che morì cadendo da cavallo per aver travolto un cinghiale nella caccia, danneggierà
la Francia facendo coniare monete con un valore minore di quello dichiarato; il
re di Scozia e quello d'Inghilterra saranno dannati per la superbia che li rende
insofferenti dei confini che spettano loro; a tutti sarà manifesta la lussuria e
l'oziosità dei re di Spagna e di Boemia; Carlo II d'Angiò, detto lo zoppo (ciotto)
di Gerusalemme, vedrà segnata una "I" (che vale uno) per i suoi meriti, e una "M"
(che vale mille) per le sue colpe; si vedrà l'avarizia e la viltà del re dell'isola
del foco (l'Etna), in cui morì Anchise ormai vecchissimo, cioè di Federico II re
di Sicilia, per elencare i cui peccati sarà necessario usare delle abbreviazioni.
E saranno rese note anche le azioni disonorevoli di suo zio da parte di padre (detto
"barba" nei dialetti settentrionali), re di Maiorca, e di suo fratello, re d'Aragona,
entrambi con il nome di Giacomo II. E ancora, si conosceranno le opere del re del
Portogallo, del re della Norvegia, e del re di Serbia (la Rascia si trova tra la
Serbia e il Kosovo), che fece coniare monete simili a quelle di Venezia con intento
fraudolento. Invocazione finale: "O beata Ungheria, se riuscirai a porre fine al
malgoverno!" e Dante scrittore sa già che Caroberto, il figlio di Carlo Martello,
porrà fine alle lotte e la governerà con valore; "O beata Navarra, se tu potessi
difenderti bene con i Pirenei che ti circondano!" ma in questo caso Dante sa che
il buongoverno di cui ha goduto è destinato a finire con il suo prossimo passaggio
sotto l'influenza francese, e quindi sotto Filippo il Bello, che Dante detestava.
"E tutti devono interpretare come anticipo di questa disgrazia le sofferenze di
Cipro (designata dalle sue due maggiori città) inflitte dal suo bestiale sovrano
(Arrigo II di stirpe francese), che non si discosta dal comportamento di tutti gli
altri sovrani bestiali". Malgrado la prolissità di questo commento, mi si permetta
ancora una nota di fanta-teologia: devo ammettere che non sono soddisfatto dalla
reticenza dei beati sul tema degli infedeli che, anche se di buona volontà e senza
colpa, sarebbero condannati solo per non aver potuto credere in Cristo; anche se
poi, parlando del giorno del giudizio, le anime dicono che loro potranno essere
più vicini a Dio che tanti falsi cristiani, resta una magra consolazione se comunque
fossero condannati. Così ho immaginato una soluzione che potrebbe salvare loro come
le altre anime relegate nel Limbo descritto nel IV canto dell'Inferno: forse a tutti
loro è riservata ancora una prova, che devono compiere prima del fatidico giorno
del giudizio. Pur pensando di essere ormai dannati, alcuni di loro potrebbero ugualmente
nutrire una fiducia incondizionata nella bontà di Cristo e nella misericordia di
Dio, tale da costituire un vero e proprio "atto di fede" postumo, che potrebbe essere
valido proprio perché compiuto da anime ufficialmente prive di ogni speranza. Sembra
troppo cavilloso? Eppure, così sarebbe giustificata in modo ideale anche la necessità
della "segretezza" e la dichiarazione della "incomprensibilità" della logica della
legge divina. Proprio questa segretezza permette di potere accettare come valida
la "fede postuma" degli infedeli. I beati del Paradiso lo sanno, ma questa verità
non può arrivare al Limbo, pena l'annullamento della "prova di recupero". Probabilmente
neanche Dante ci ha pensato, ma come dice il commento di Sermonti a proposito dell'immagine
del compasso in questo stesso canto, nella poesia vi può essere più verità di quanta
intendesse versarne chi l'ha scritta; e quando le anime che compongono l'aquila
cantano che egli non può comprendere il loro canto, così come i mortali non possono
comprendere il giudizio divino, proprio in quel momento Dante lo sta comprendendo
benissimo. Il fondo del mare può essere misurato anche quando non si può vedere.
Canto XX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XX canto del Paradiso inizia con il paragone delle luci dei beati che compongono
l'immagine dell'aquila con le stelle che, in base alle credenze del suo tempo, Dante
riteneva brillare per la luce riflessa del sole, come oggi sappiamo accade solo
per i pianeti. Terminato il discorso del canto precedente, le anime sono viste non
più come un'unica immagine di aquila, ma come singole luci che intonano un canto
in cui manifestano tutto il loro ardore verso Dio. Le anime sono chiamate "flailli",
parola che non ha altre occorrenze in tutta la letteratura, ma che si ritiene significare
"flauti" (altri propongono "fiaccole"). Quando il canto finisce, Dante sente un
suono simile ad un fiume che scende rigoglioso, dando prova della abbondanza della
propria fonte. E come sil suono di una cetra si forma dove le corde toccano il lanico,
o nei fori della zampogna, così quel suono indistinto composto dalle tante voci
delle anime prende forma nel collo dell'immagine dell'aquila, che torna a rivolgersi
a Dante parlando in prima persona singolare. Essa invita Dante a guardare le anime
che compongono il suo unico occhio, essendo la testa dell'aquila rivolta di profilo.
Questo è composto da un'anima che fa da pupilla e cinque anime che formano l'arco
superiore dell'occhio. La pupilla è Davide, il re di Israele che è ritenuto essere
l'autore dei Salmi e trasportò l'arca dell'alleanza da Gabaon a Geth e poi a Gerusalemme
(dove entrò ballando di giubilo in lode al Signore come già ricordato in un altorilievo
nel X canto del Purgatorio), ed ora sa quanto fu meritevole la sua opera, con il
premio che ha ricevuto. La prima anima che forma l'arcata del ciglio, quella più
vicona al becco, è Traiano, che nello stesso altrorilievo del X canto del Purgatorio
rende giustizia ad una povera vedova che aveva perso il figlio, ed ora che ha fatto
esperienza del limbo, sa quanto si possa perdere se non si segue Cristo. Accanto
a lui c'è Ezechia, re di Giuda, che con il suo pentimento ottenne di rinviare la
propria morte di quindici anni, in cui poté meritare la propria salvezza, e che
ora sa come ogni preghiera sia già prevista nell'onniscienza di Dio, che dunque
non muta il suo volere quando le accoglie. Lo spirito seguente è l'imperatore Costantino,
che trasferì la sede dell'impero a Bisanzio, con le sue leggi e con l'insegna dell'aquila
che ora è rappresentata dai beati. Egli è responsabile della donazione di Costantino,
che portò alla corruzione della Chiesa, ma poiché il suo atto fu compiuto con buona
intenzione, non gli è attribuito come colpa. Accanto gli è Guglielmo II d'Altavilla,
re di Sicilia e di Puglia, che lo rimpiangono, adesso che piangono sotto Carlo II
d'Angiò re di Napoli e Federico II d'Aragona, re di Sicilia. Adesso sa quanto il
cielo ama i re giusti, come infatti il suo fulgore manifesta. L'ultima luce è Rifèo,
che nell'Eneide di Virgilio è brevemente descritto come "il più giusto e il più
rispettoso dell'equità"... come possa essere in Paradiso, sarà spiegato tra poco:
certamente egli conosce la grazia divina più di ogni altro, per quanto neanche lui
possa scorgerne il fondo. L'aquila tace come un'allodola che dopo aver volato cantando,
si posa come saziata dalla dolcezza delle sue ultime note. Anche se i beati possono
vedere i pensieri di Dante, egli non frena la sua sorpresa di aver visto i due pagani
Traiano e Rifèo, e chiede: "Che cose son queste?". E l'aquila, ravvivata la sua
luce, gli spiega che la volontà divina si lascia vincere volentieri dal caldo amore
e dalla speranza degli uomini, e così quelle due anime poterono morire come cristiani
effettivi: Traiano, già nel limbo, fu richiamato in vita dalle preghiere di San
Gregorio Magno, papa dal 590 al 604, ed ebbe così la possibilità di convertirsi
ed accedere al Paradiso. Rifèo fu così dedito all'esercizio della giustizia, che
Dio gli concesse la grazia di prevedere la futura redenzione, e più di mille anni
prima di Cristo egli fu battezzato dalle tre virtù teologali Fede, Speranza e Carità,
che Dante aveva visto danzare vicino alla ruota destra del carro che gli apparve
nel Paradiso terrestre, come ci ha raccontato nel XXIX canto del Purgatorio. L'aquila
chiude il suo discorso: "O predestinazione, quanto sei incomprensibile a chi non
ha la visione di Dio! E voi mortali, non giudicate superficialmente, dal momento
che neanche noi beati, malgrado la nostra visione di Dio, possiamo sapere chi sarà
salvato! Ma questa mancanza ci è dolce, perché si adegua al volere divino" (questa
cautela potrebbe corroborare la mia tesi fantateologica esposta alla fine del canto
precedente, sulla possibile "prova d'appello" per i destinati al limbo, che allora
forse neanche i beati possono conoscere...). Come un buon suonatore di cetra accompagna
un buon cantore, durante il discorso dell'aquila, le luci delle due anime sante
si muovevano in sincronia come gli occhi in un battito di ciglia.
Canto XXI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
All'inizio del XXI canto del Paradiso
Dante guarda verso Beatrice, e vede che non sorride più, ma lei subito gli spiega
che essendo loro saliti al settimo cielo, quello di Saturno, la sua bellezza si
è accresciuta al punto che il suo sorridere l'avrebbe incenerito, come Sèmele, la
figlia di Cadmo, re di Tebe, che fu amata da Giove e partorì Bacco, che fu indotta
dalla gelosa Giunone a chiedere a Giove di apparirle in tutta la sua divina potenza,
ma quando egli accettò di farlo, lei morì fulminata dall'eccessivo splendore. Poi
lo invita a guardarsi intorno, e Dante le obbedisce con lo stesso piacere che prova
nel guardarla. Nel corpo trasparente di Saturno, che secondo la mitologia regnò
nell'età dell'oro, nella quale gli uomini non erano malvagi, Dante vede una immensa
gradinata dorata, di cui non distingue la fine. Su e giù per la scala vede muoversi
tante anime quante sono le stelle in cielo, in modo simile alle "pole", cioè ai
corvi grigi, che al mattino volano chi lontano, chi avanti e indietro, chi roteando
intorno al nido. Una di loro si avvicina a Dante, che però esita a parlare, aspettando
un cenno d'assenso da Beatrice. Lei se ne accorge e lo invita a parlare, e forte
dell'autorizzazione ricevuta, Dante si rivolge all'anima e le chiede perché si sia
avvicinata più delle altre, e perché tutte le anime stiano in silenzio, senza innalzare
i canti che ha sentito negli altri cieli. Il beato dice che esse tacciono per lo
stesso motivo per cui Beatrice non sorride: i sensi del corpo mortale di Dante non
potrebbero sopportare l'eccessiva bellezza dei loro cori. Poi spiega di essersi
avvicinato per fargli festa e potergli parlare, ma tutte le anime fervono dello
stesso amore per lui, come appare dalla loro luminosità, ma che egli solo è stato
destinato da Dio a farsi più avanti degli altri. Dante risponde di capire come la
libera volontà dei beati coincida con la stessa volontà di Dio senza alcuna imposizione,
ma non riesce a capire i motivi profondi della scelta di Dio. L'anima gira sul proprio
asse orizzontale come la mola di un mulino, e risponde che, sebbene la luce divina
penetri in lei permettendole di contemplare Dio, neanche il serafino più vicino
a Dio può penetrare fino in fondo alla sua volontà. Per questo, una volta tornato
nel mondo mortale, è bene che Dante ricordi agli uomini di non pretendere di poter
comprendere la volontà di Dio, essendo impossibile che le menti mortali, offuscate
rispetto a quelle dei beati, vedano ciò che è invisibile anche dopo l'assunzione
nei cieli. Dante allora chiede all'anima chi fosse quando era in vita, e questa
risponde di aver iniziato una vita di eremitaggio presso il monastero di Fonte Avellana,
sotto il monte Catria, una cima isolata degli Appennini umbro-marchigiani, accontendandosi
di cibi magri conditi con olio, e sopportando senza disagi le intemperie delle stagioni.
Ai suoi tempi da quell'eremo vennero molte anime sante, mentre ora è sterile in
confronto. Egli fu Pier Damiani, chiamato Pietro Peccatore quando visse nell'abbazia
di Santa Maria di Porto Fuori sull'Adriatico. Anche se "Petrus peccator monacus"
era la firma che Pier Damiani usò in alcune lettere, Dante lo confonde con un altro
Pietro Peccatore che fu sepolto in quella abbazia. Prosegue il suo racconto: quasi
al termine della sua vita fu nominato cardinale, titolo che oggi si assegna a chi
non lo merita. Anche qui, Dante non sa che egli fu fatto cardinale quindici anni
prima di morire, e che cinque anni prima di morire egli rinunciò alla carica per
tornare alla vita monastica, altrimenti avrebbe senz'altro citato questo fatto nella
sua invettiva finale. Pietro e Paolo (il "vas electionis" dello Spirito Santo) erano
magri e scalzi, ed elemosinavano il cibo, ora invece gli uomini di chiesa devono
essere sorretti a destra e a sinistra per la loro mole, ed essere alzati da dietro
per montare a cavallo, con mantelli così sfarzosi e grandi "che due bestie van sott'una
pelle". Oh pazienza di Dio che sopporti così tanto! A questa esclamazione, tutte
le anime si avvicinano e prendono a girare, fermandosi intorno a Pier Damiani e
levando un grido così alto che Dante non riesce a comprenderlo, frastornato dal
fragore del rimbombo.
Canto XXII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Stupito dal grido che le anime hanno levato alla fine del canto precedente, all'inizio
di questo XXII canto del Paradiso
Dante si volge verso Beatrice, come il bambino spaventato si rifugia dalla madre, e
lei lo rassicura: "Non ti ricordi di essere in Cielo, dove tutto si fa per intensità
d'amore? Pensa a quanto ti avrebbe sconvolto il canto di questi beati ed il mio
sorriso, se questo grido ti ha turbato così tanto; dal quale, se tu lo avessi inteso,
avresti appreso come la giustizia di Dio si compirà prima della tua morte. Il castigo
di Dio viene al momento giusto, anche se sembra troppo presto o troppo tardi a coloro
che la giustizia di Dio temono o attendono. Ma torna a rivolgere
il tuo sguardo a questi spiriti illustri". E Dante vede cento sfere risplendenti che gli si fanno
intorno, e non osa parlare. Ma la più lucente di quelle gemme si fa
avanti e si rivolge a lui (è S. Benedetto da Norcia, nato nel 480): "Se tu vedessi
il nostro ardore di carità per te, non ti faresti scrupolo di parlare; ma per non
farti attendere troppo, io risponderò al tuo pensiero. Il monte sulle cui pendici si
trova Cassino, era frequentato da genti pagane ostili ai cristiani, quando iniziai a
portarvi il nome di Colui che ci rivelò la verità, e su di me risplendette
tanta grazia che allontanai gli abitanti di quella zona dai culti pagani. Questi
beati che mi stanno accanto furono tutti uomini dediti alla contemplazione, come
l'anacoreta Macario" (non sappiamo se sia S. Macario l'Egiziano del 300 o S. Macario
l'Alessandrino del 390, e forse Dante li confondeva) "e Romualdo" (S. Romulado degli Onesti
che nel 1018 fondò l'eremo di Camaldoli) "e tanti frati che furono fedeli
alla mia regola". Dante prende fiducia e chiede di poter vedere la sua immagine, che come per tutti
i beati, è nascosta dalla sua luce. Benedetto gli spiega che il suo desiderio potrà
appagarsi nell'ultima sfera celeste, cioè nell'Empireo, dove tutti i beati sono
riuniti (ricordiamo che essi appaiono a Dante nei diversi cieli per incontrarli in modo graduale,
secondo il loro grado di beatitudine, ma che effettivamente
essi dimorano tutti nell'Empireo, vicino a Dio), e dove conduce la gradinata che
sale a perdita d'occhio. Questa è la scala percorsa dagli angeli che apparve in sogno
al patriarca Giacobbe (Genesi XXVIII, 12). Benedetto biasima la condizione attuale
della
Chiesa: "Ormai nessuno si affatica più per salirla, ed anche la mia regola
serve solo a imbrattare le carte su cui è trascritta; le mura del monastero sono
divenute spelonche, e le tonache dei frati, sacchi di farina guasta. Ma la cosa
che a Dio spiace più dell'usura, è l'avidità dei monaci, che dovrebbero destinare
le ricchezze della Chiesa ai poveri, non ai parenti o alle concubine. Ma la cane
dei mortali è così debole, che anche le migliori intenzioni non riescono a durare
abbastanza per generare i loro frutti". Dal nascere della quercia alla fruttificazione
passano circa venti anni, che qui però sono intesi come tempo breve; forse il senso
è che nessuno riesce a perseverare nelle buone intenzioni più di una ventina d'anni,
che comunque, nella vita di un uomo, non sono generalmente sufficienti per compiere
virtuosamente
un'intera vita. Contina Benedetto: "San Pietro iniziò a fare proseliti senza oro
e argento, io con la preghiera e il digiuno, e San Francesco con la sua umiltà.
Ma dopo il loro buon inizio, puoi vedere le cattive condizioni delle comunità che
ne sono derivate, e certamente il castigo di Dio non sembrerà una cosa così sorprendente
quanto fu invece lo scorrere all'indietro delle acque del Giordano", miracolo che
avvenne per far passare Giosuè e il popolo ebraico nella Terra promessa (Giosué,
III, 16), "o delle acque del Mar Rosso", che si aprirono per far passare
Mosé (Esodo, XIV, 21). Detto questo, S. Benedetto si riunisce alle altre anime, che si stringono
e formano come un turbine, che sale roteando compatto su per la gradinata;
Beatrice spinge Dante a salire dietro a loro, e la loro ascesa è più veloce di
quanto si allontana un dito inavvertitamente scottato dal fuoco. Il cielo seguente
è l'ottavo, quello delle stelle fisse, e Dante vi entra proprio in corrispondenza del segno
che segue il Toro, ossia i Gemelli, che sono il suo segno natale, e a cui, secono
la tradizione, è associata la propensione allo studio e alle arti, e dunque alla
gloria. A loro si raccomanda il poeta per trovare l'ispirazione per completare il
suo racconto del Paradiso, ora che entra nella parte più impegnativa. Prima di continuare,
Beatrice invita Dante a guardare verso il basso e a considerare tutta la strada
percorsa fino a quel punto. Dante vede la Terra così piccola, che comprende quanto
sia virtuosa l'opinione di stimare la vita terrena di poco conto, al paragone di
quella celeste. Poi vede la Luna (rappresentata da Diana, figlia di Latona),
senza le zone chiare e scure che lo avevano confuso (e che Beatrice
gli ha spiegato nel II canto del Paradiso), poi il Sole, che secondo Ovidio era
figlio di Iperione, e vicino a lui Mercurio (figlio di Maia) e Venere (figlia di
Dione), poi Giove, compreso tra il padre (Saturno) e il figlio (Marte), e gli appare
chiaro anche il complesso movimento degli epicicli che gli attribuivano gli astronomi,
suggerendo quasi che sia dovuto alla sua mediazione tra gli influssi dei due pianeti/parenti;
e vede quanto i sette pianeti siano grandi e veloci, e quanto siano distanti le loro
orbite. Dall'alto della costellazione eterna dei Gemelli, la Terra gli appare
come una piccola aia su cui gli uomini si combattono
ferocemente, che egli può coprire
tutta, dai monti a i mari, con un solo sguardo.
Infine rivolge nuovamente gli occhi
agli occhi belli di Beatrice.
Canto XXIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XXIII canto del Paradiso
inizia con l'immagine di Beatrice che guarda in alto come un uccellino in attesa
del sorgere del sole, la cui luce gli permette di andare in cerca del cibo per nutrire
i suoi piccoli. Ugualmente Dante fissa lei, desiderando che accada ciò che lei aspetta.
In poco tempo, il cielo si fa sempre più luminoso. e Beatrice annuncia: "Ecco le
schiere del trionfo di Cristo", con un viso che a Dante pare ardere di letizia.
Come la luna piena (chiamata "Trivia" perché personificata da Diana o anche da Ecate,
a cui erano consacrati i trivii e i crocicchi) risplende in mezzo alle stelle che
riempiono tutti gli angoli del cielo, così appare la luce di Cristo che illumina
le innumerevoli luci dei beati, brillando della sua luce come (secondo la cosmologia
dell'epoca) le stelle riflettono la luce del sole. Dante non riesce a fissare la
sua luce, tanto essa è intensa, e Beatrice spiega che nulla può resistere alla sua
virtù, la cui potenza è tale che poté riaprire le strade tra il cielo e la terra,
interrotte dopo il peccato originale. La mente di Dante, nutrita da quella contemplazione
("dape" sta per "vivande") si fa più grande, fino a traboccare da sé stessa (i mistici
chiamavano questa condizione "excessus mentis"), così come il fulmine (secondo la
scienza del tempo) si sprigiona dalla nuvola per l'eccessiva dilatazione. Beatrice
lo invita ad aprire gli occhi e a guardare il suo sorriso: dopo questa visione mistica,
egli infatti è diventato capace di sostenere di nuovo sua la bellezza, che dall'ingresso
al cielo di Saturno era diventata eccessiva per i suoi sensi. Dante la ammira, ma
l'emozione è indescrivibile, come un sogno che non si ricorda, e non basterebbero
tutti i poeti del mondo, nutriti dal latte di Poliamnia, la musa della poesia lirica,
e delle altre muse sue sorelle, per descrivere la millesima parte di quel sorriso.
Allo stesso modo, in questa terza cantica, è opportuno che egli sorvoli sulla bellezza
del Paradiso, tanto è difficile l'impresa che si è accollato, come un tratto di
mare lungo e pericoloso ("pareggio") non è adatto a un navigante che voglia risparmiarsi
le fatiche. Ma Beatrice lo invita a guardare di nuovo il bel giardino dei beati
che fiorisce sotto la luce di Cristo, tra cui potrà riconoscere "la rosa in cui
il verbo divino si fece carne", cioé la Madonna, e tutti i gigli odorosi, cioé gli
apostoli, da cui ebbe origine la Chiesa. Dante guarda, e vede come un prato illuminato
dal sole nascosto tra le nubi, e capisce che Cristo si è innalzato verso l'Empireo,
per permettergli di vedere meglio lo spettacolo dei beati e di Maria, che tra loro
è la più sfolgorante. Dante si emoziona, rivolgendo tutta la sua attenzione a lei,
che lassù supera tutti i beati come qui sulla terra superò tutti i mortali. Dal
cielo appare l'arcangelo Gabriele, sotto forma di fiaccola circolare che cinge la
testa di Maria come una corona, cantando un inno al cui confronto la melodia più
dolce sembrerebbe un rumore di tuono, e la accompagna nella sua ascesa verso l'Empireo,
che il suo ingresso renderà più divino. Tutti i beati si uniscono al coro per Maria,
mentre lei e l'arcangelo ascendono verso la sfera successiva, il primo mobile, "lo
real manto di tutti i volumi", che però è ancora così lontano che Dante non può
distinguere la sua calotta interna. I beati dirigono la cima delle loro fiamme verso
Maria che sale, come il bambino che tende le braccia alla mamma dopo aver preso
il latte, e cantano "Regina Caeli", il coro tradizionale del periodo pasquale. Quanta
abbondanza di beatitudine è contenuta in quelle arche (le anime dei beati), che
qui sulla terra furono così buone seminatrici! ("bobolce", viene dalla stessa radice
latina di "bifolco"). Adesso esse possono godere di quel tesoro che guadagnarono
soffrendo durante l'esilio di Babilonia (metafora per la vita terrena ripresa dalla
Bibbia, che racconta come nel 600 a.C. ebbe inizio il periodo denominato "cattività
babilonese", sotto il re Nabuccodonosor II), quando disprezzarono le ricchezze terrene.
E tra le schiere dei beati del Vecchio e del Nuovo testamento, risalta colui che
tiene le chiavi della gloria della Chiesa: San Pietro.
Canto XXIV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
All'inizio del XXIV canto del Paradiso, Beatrice si rivolge agli Apostoli, coloro che insieme a Gesù, l'Agnello di Dio,
parteciparono all'ultima cena, che qui simboleggia la beatitudine celeste, invitandoli
a condividere con Dante, per la grazia che gli ha concesso di visitare i cieli ancora
in vita, le briciole della sapienza da
cui essi sono illuminati. Per manifestare la loro gioia, le anime ruotano in cerchi
che girano a velocità differente, come negli orologi meccanici che all'epoca di
Dante erano ai loro albori. È da notare come il movimento comunicato dagli ingranaggi
sia vocalmente reso in questi versi con l'uso di una "rima franta" o "tmesi", ossia
con la spezzatura della parola "differente-mente" in due versi successivi. Dalle
anime che formano la corona più preziosa esce la
luce più brillante, che
ruota intorno a Beatrice con un canto così bello che il poeta non sa ricordarlo;
poi le si ferma davanti, e si rivolge a lei. È San Pietro,
chiamato da Beatrice "colui a cui Nostro Signore lasciò le chiavi" del Paradiso,
luogo di gioia e di meraviglia, ed è da lei invitato ad interrogare Dante sulla
fede, per la quale, secondo il Vangelo di Matteo
(XIV, 29), egli camminò sulle acque insieme a Cristo, anche se proprio in quell'occasione
Gesù lo riprende per la sua "poca fede" subito dopo, quando, spaventato, inizia a sprofondare. Pietro vede già,
nella verità di Dio che sempre gli sta davanti, che la fede di Dante è buona, e infatti
lo chiama subito "buon Cristiano", ma è bene che Dante esprima a parole i suoi
pensieri. Così il poeta si prepara come un laureando all'esame del maestro, che,
secondo la tradizione della scolastica, propone una questione di cui poi il candidato
deve fornire le prove, e che poi sarà conclusa dal maestro. La prima domanda riguarda
la definizione della fede. Dante prima di parlare aspetta un cenno d'assenso di
Beatrice, poi premette un'invocazione alla grazia divina che gli consente di parlare
con il primo dei soldati di Cristo ("primipìlo" era un centurione romano), poi risponde,
citando espressamente San Paolo (che predicò a Roma insieme a San Pietro), che l'essenza
della fede sta nell'essere "sostanza delle cose sperate" e "argomento delle cose
che non si possono vedere". Il termine "sostanza" nella
filosofi scolastica va inteso come il "fondamento
sostanziale" di qualcosa, mentre l'"argomento" è la premessa concettuale di una
deduzione. La fede, secondo Dante (e secondo San Tommaso che ha commentato la definizione
di San Paolo), è la base della speranza di salvezza, di sopravvivenza alla morte,
e la premessa per la comprensione della verità che altrimenti resta inconoscibile.
Dante approfondisce la questione su richiesta di San Pietro: le cose che in cielo si possono vedere, nella vita terrena
sono nascoste, ed è necessario credere
per nutrire la speranza, e per questo la fede è la "sostanza" della speranza. A
partire da essa, è possibile arrivare alla comprensione della verità con un procedimento
razionale, e per questo la fede è "argomento" della conoscenza. Commenta San Pietro:
"Se tutte le dottrine fossero così ben comprese, sulla terra non ci sarebbe spazio
per tanti sofismi". Poi chiede a Dante se egli abbia davvero questa fede. Alla sua
risposta affermativa, incalza, chiedendo da cosa derivi la sua certezza, e Dante
si appella all'ispirazione dello Spirito Santo che pervade il Vecchio e il Nuovo
Testamento. San Pietro chiede cosa testimoni la loro natura divina, e Dante cita
i miracoli che vi sono narrati, che non possono essere opere naturali. Ma San Pietro
gli fa notare che la loro verità è testimoniata solo dalla Bibbia stessa, la cui
verità è quella che ora gli è stato chiesto di dimostrare. Allora Dante ricorre
a un altro miracolo, che giudica ancora più grande, ossia che tutto il mondo si
sia converito al cristianesimo, a partire dalla umile predicazione che iniziò con
San Pietro e tutti gli altri Apostoli. A questo punto, la soddisfazione di tutti
i beati per la risposta si esprime con un coro di lode a Dio, e San Pietro si avvia
alla conclusione dell'esame, dichiarando la sua approvazione e chiedendo a Dante
di parlare della sua fede e della via che lo ha condotto ad essa. Dante nella risposta
enfatizza la fede di San Pietro, che lo fece arrivare primo al sepolcro di Cristo,
forzando un po' il Vangelo di San Giovanni (XX, 6) che si riferisce in realtà al
suo ingresso nel sepolcro, non al suo arrivo, ma forse bisogna interpretare simbolicamente
anche questo passo, in quanto San Pietro fu il primo che rispose alla domanda di Gesù, riconoscendolo
come "il Cristo, il Figlio di Dio vivente" (Matteo, XVI, 16; Marco, VIII, 29; Luca,
IX, 20). Dante proclama la sua fede, parafrasando il "Credo atanasiano": "Credo
in un Dio unico ed eterno, che muove tutto senza essere mosso, con l'amore che dona e
il desiderio che suscita; della sua verità non solo ho prove fisiche e metafisiche,
ma anche quelle testimoniate nella Bibbia da Mosè, dai Profeti, nei Salmi, nei Vangeli
e gli Atti degli Apostoli, che voi scriveste alimentati dallo Spirito Santo; credo
nelle tre persone eterne che hanno essenza una e trina, tanto da ammettere l'uso
di riferirsi a loro sia al plurale ("sono" ) che al singolare ("è"). L'insegnamento
evangelico mi imprime nella mente la certezza di questa imperscrutabile condizione
di Dio, e da questa favilla nasce la mia convinzione che poi diventa una fiamma, che infine
fa risplendere la mia fede come una stella". Questa dichiarazione entusiasma San
Pietro che come il signore che abbraccia il servo che gli ha portato una buona notizia,
lo cinge tre volte con la sua luce, levando un canto di benedizione.
Canto XXV
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
L'inizio del XXV canto del Paradiso è molto particolare, perché è l'unico passo della Divina Commedia in cui Dante parla
esplicitamente dell'esilio a cui è stato condannato, mentre altrove è sempre riportato
come vaga profezia futura, che si lascia intendere essere ancora da verificarsi
al tempo fittizio in cui il personaggio-poeta, una volta ritornato, riferisce il
suo viaggio. Eccezionalmente, in questo passo il tempo diventa quello effettivo
di Dante al tempo in cui veramente scriveva queste righe, quando ormai era cosciente
del suo valore di poeta, dell'importanza del suo poema e della probabile irrevocabilità
della sua condanna all'esilio. "Se accadesse mai che il poema sacro, alla cui creazione
hanno concorso l'esperienza terrena e la scienza divina, e sul quale mi sto consumando
da molti anni, vinca l'odio dei Guelfi Neri che mi tiene lontano da Firenze, dove
ho vissuto la mia infanzia, e sono divenuto poi un nemico per i malvagi che tengono la città
in continue lotte, allora tornerò come poeta di maggiore importanza, con l'aspetto invecchiato,
e sarò coronato di alloro (il "cappello" dei poeti) sullo stesso fonte battesimale
di San Giovanni, dove, essendo stato battezzato da bambino, entrai nella fede che rende
le anime grate a Dio, e per la quale fede (nel canto scorso) San Pietro mi ha cinto la
fronte". Poi un'altra anima esce dalla stessa corona da cui era uscito San Pietro, il
primo dei vicari terreni di Cristo, e Beatrice lo invita ad ammirarlo: è San Giacomo
(o Iacopo, che deriva dall'ebraico "Ya'aqob"), fratello di San Giovanni e figlio
di Zebedeo (detto "Giacomo maggiore" per distinguerlo dall'altro apostolo Giacomo
di Alfeo, detto "il minore"), a cui è dedicato il santuario di San Giacomo di Compostella,
in Galizia, nella Spagna nord-occidentale. San Giacomo saluta San Pietro con una
specie di danza simile a quella di due colombi che si dimostrano affetto, poi entrambi
si fermano davanti a Dante, accesi d'uno splendore tale che egli abbassa il volto.
Beatrice sorride rivolgendosi a San Giacomo: "O anima gloriosa, che scrivesti della
generosità del Paradiso," (si riferisce all'epistola di San Giacomo, che oggi però
è attribuita a San Giacomo minore), "interroga Dante sulla speranza, tu che la hai
rappresentata ogni volta che Gesù ha mostrato predilezione per voi tre" (San Pietro,
San Giacomo e San Giovanni erano i tre apostoli prediletti da Gesù). Così San Giacomo
invita Dante ad alzare lo sguardo, ed a rassicurarsi: chi arriva ai cieli, deve
rafforzare la sua vista, che Dante aveva distolto come gravato dal peso eccessivo
delle loro autorità, e lo interroga: "Poiché la grazia di Dio ti concede di incontrare
i maggiori beati in questi cieli altissimi prima della morte, perché al tuo ritorno
tu possa confortare gli altri uomini con la speranza, che accende l'amore del vero
bene, dimmi che cos'è la speranza, quanta ne coltivi dentro di te, e da dove
ti viene". Beatrice si intromette per rispondere al secondo quesito, in modo opportuno,
per evitare che una risposta diretta da parte di Dante possa essere interpretata come presunzione:
"Tra tutti i fedeli viventi (la Chiesa militante), non c'è nessuno che abbia maggior
fede di lui, come tutti i beati possono vedere leggendo nella mente di Dio. Per questo gli
è stato concesso di lasciare l'Egitto (simbolo della vita terrena) per visitare Gerusalemme
(simbolo del Paradiso), prima dei termini della sua vita. Agli altri due punti,
può rispondere da solo, senza sospetti di vanteria, perché con le sue dichiarazioni gli sia
concessa la grazia di Dio". Così inizia Dante, citando il filosofo Pietro Lombardo:
"La speranza è un'attesa certa della futura beatitudine, che viene dalla grazia
di Dio e dai meriti acquisiti con la propria opera; questa certezza mi viene da
molte fonti, ma il primo da cui l'ho ricevuta è Davide, che fu autore dei Salmi, dove si cantano le lodi
di Dio, e dove è detto (Salmo IX, 11): 'Sperino in te, coloro che conoscono il tuo
nome', come lo conosce chiunque abbia la mia fede; ed anche la tua epistola, San Giacomo,
invita alla speranza (c'è un cenno al premio eterno che Dio promette a chi vince
le tentazioni, ai poveri, agli umili). Così ho tanta speranza da poterne riversare
sugli altri". L'anima di San Giacomo si accende in bagliori di luce, poi chiede
di nuovo a Dante cosa gli prometta la speranza. E Dante continua: "Il Nuovo e il
Vecchio Testamento dicono cosa è promesso alle anime nella grazia di
Dio. Isaia (LXI, 7) dice che ogni beato tornerà nella sua terra, ossia qui in Paradiso,
con una doppia veste (cioè con l'anima e con il corpo); ed inoltre lo spiega anche
tuo fratello San Giovanni (Apocalisse, VII, 9), dove parla delle vesti bianche di
tutti i beati (ossia, dei loro corpi)". A queste parole risuona una voce che riprende
il Salmo di Davide: "Sperent in te", e le corone di beati riprendono la loro danza. In una
di esse, un altro lume si accende di tale luce, che se fosse una stella nella costellazione del Cancro,
che è visibile nel cielo notturno in inverno, illuminerebbe la notte in modo tale
che l'inverno avrebbe un intero mese illuminato continuamente. E come
una fanciulla che danza innocentemente per festeggiare la sposa, la terza luce si
unisce alle prime due, che si muovono al ritmo del canto, mentre Beatrice, senza
distogliere da loro lo sguardo, spiega a Dante che si tratta di San Giovanni, che
durante l'ultima cena appoggiò la testa al petto di Cristo (indicato con il simbolo del
pellicano perché secondo la tradizione esso nutriva i figli con il proprio sangue),
e che Cristo sulla croce elesse a prendere il suo posto di figlio per avere cura di Maria (Giovanni,
XIX, 27).Poiché secondo la tradizione medioevale San Giovanni sarebbe salito
al cielo con il corpo terreno, Dante cerca di scrutare nella sua luce, come chi
cerca di distinguere un'eclissi parziale di sole, abbagliandosi fino ad una temporanea cecità.
Ma San Giovanni lo ammonisce: "Perché cerchi di vedere qualcosa che non c'è?
Il mio corpo è polvere sulla terra, come tutti gli altri, fino al giorno del Giudizio;
solo il Cristo e Maria sono saliti all'Empireo con i loro corpi terreni, e questo
è ciò che dovrai riferire nel mondo terreno". È interessante notare che il dogma
dell'assunzione ai cieli di Maria insieme al suo corpo è stato affermato ufficialmente
dalla Chiesa solo nel 1950. A questa voce, le corone dei beati cessano le danze e i cori, come
i rematori si fermano prontamente al segnale del nocchiero. Dante si volge verso
Beatrice, ma rimane turbato nel constatare che essendo ancora abbagliato, non riesce a vedere
niente, benché fosse vicino a lei e nel mondo felice del Paradiso.
Canto XXVI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel XXVI canto del Paradiso si conclude l'esame su Fede, Speranza e Carità che Dante sostiene nell'Università
Celeste di fronte a San Pietro, San Giacomo e San Giovanni. Dante è ancora abbagliato
quando Giovanni si rivolge a lui: "Mentre attendi di riacquistare la vista, approfittane
per ragionare e dimmi a cosa aspira la tua anima, e tranquillizzati perché la tua
vista è solo smarrita: infatti la donna che ti guida per queste regioni divine ha
nei suoi occhi la virtù che Ananìa ebbe nelle mani". Ananìa fu uno dei primi cristiani
di Damasco, che battezzò San Paolo facendogli riacquistare la vista, che egli aveva
perso quando fu folgorato dall'apparizione di Cristo, per l'appunto sulla via di
Damasco. È da notare che San Paolo era stato citato nel secondo canto dell'Inferno,
quando Dante aveva espresso a Virgilio il suo timore di non essere all'altezza di
una tale impresa, insieme ad Enea, al quale si è già paragonato nel XV canto. Dante
risponde: "Ella a suo piacere mi guarisca gli occhi, che furono le porte da cui
entrò per prima con il fuoco della carità, di cui ancora ardo. Il bene che regna
qui in Paradiso (Dio) è principio e fine (Alfa ed Omega, rappresentato con una "O")
di tutto ciò che l'Amore mi insegna (mi legge)". Giovanni lo sprona ad approfondire:
"Chiarisci chi diresse il tuo amore verso Dio". E Dante: "Sono stato indirizzato
a questo amore sia dal ragionamento razionale che dall'autorità che deriva direttamente
dai cieli. Poiché quando si riconosce il bene, esso suscita tanto amore quanto più
esprime la sua bontà; se si riconosce la verità di questo argomento, è naturale
che la mente rivolga il suo amore verso l'essenza che in bene supera tanto le altre,
che esse sono solo riflessi dei suoi raggi. Questa verità mi è spiegata da colui
(forse Aristotele) che dimostra l'origine dell'amore di tutti gli esseri immortali
(uomini e angeli), poi la spiega la voce stessa di Dio che promise a Mosé di mostrargli tutte
le cose buone (Esodo, XXXIII, 19), ed anche tu stesso lo hai spiegato all'inizio del
tuo Vangelo, che rivela i misteri celesti giù nella Terra, più che ogni altro messaggio".
E Giovanni: "Il più grande dei tuoi amori è rivolto verso Dio dalla ragione umana
e dall'autorità delle scritture; ma dimmi se senti altri stimoli che ti spingono
a lui, ed esprimi quali sono le loro cause". Dante capisce bene la domanda dell'Aquila
di Cristo (l'aquila è il simbolo di San Giovanni) e risponde: "Alla mia carità hanno
concorso tutti gli stimoli che fanno amare Dio: L'esistenza del mondo, la mia stessa
esistenza, il suo sacrificio per la nostra redenzione, e la promessa della nostra
beatitudine eterna. Queste cose, insieme alla conoscenza che ho detto, mi hanno
tolto dall'amore fallace per i beni terreni e posto sulla riva dell'amore vero.
E tutte le cose create da Dio, mi stimolano amore nella misura in cui riflettono
l'amore che Dio ripone in loro". A questo punto si leva un coro di approvazione
di tutte le anime, Beatrice compresa, e Dante riacquista la vista, con una descrizione
tecnica che egli riprende dall'opera di Alberto Magno, secondo cui lo "spirito visivo"
va incontro alla luce che attraversa le membrane dell'occhio. Inizialmente la sua
vista è confusa ed egli non riesce a distinguere le immagini, come una persona appena
svegliata, ma poi si accorge di vedere meglio che in precedenza. Allora vede che è apparsa
una quarta anima accanto ai tre apostoli, e Beatrice spiega che si tratta di
Adamo, la prima anima umana creata da Dio. Dante si inchina reverente come un albero
piegato dal vento, poi si rivolge a lui, unico uomo creato già adulto, a cui ogni
sposa è figlia e moglie di un suo figlio, chiedendogli di rispondere alle domande
che però non gli formula, sapendo che Adamo le può leggere benissimo nella mente
di Dio. La luce che riveste l'anima di Adamo si muove manifestando il suo desiderio
di rispondere come il rivestimento che copre un animale che si agita. Conferma di vedere
cosa vuole sapere Dante nello specchio del vero (Dio) che riflette tutte le
cose nella loro vera forma, mentre niente può riprodurre la sua immagine intera.
Dante desidera sapere quattro cose: Quanto tempo è passato dalla creazione di Adamo
(e dunque del genere umano), quanto tempo egli restò nel Paradiso Terrestre (dove
Beatrice rese Dante degno di salire alle stelle), il vero motivo della sua condanna
da parte di Dio, e quale fu la lingua che egli si inventò per parlare. Questi quesiti
possono apparire marginali ma erano dibattuti ai tempi di Dante ed egli qui approfitta
per dare le sue risposte definitive, a correzione di alcune sue idee precedenti
(in particolare l'ultima). Adamo inizia a rispondere dalla terza, che è la più importante:
la causa della cacciata dall'Eden non fu il semplice fatto di aver assaggiato la
mela (che sarebbe stato un peccato di gola), ma l'aver trasgredito al divieto di
Dio. Una volta morto, Adamo finì nel limbo (da dove Beatrice fece muovere Virgilio
in soccorso di Dante) e lì rimase per quattromilatrecentodue anni (cronologia ripresa
da San Girolamo che si rifaceva al "Chronicon" di Eusebio di Cesarea), finché Cristo,
asceso ai cieli, lo portò con sé in Paradiso. Durante la vita,
vide il Sole passare in tutte le costellazioni dello zodiaco per novecentotrenta
volte (questa età è ripresa da Dante dalla Genesi, V, 5). Poiché Gesù morì a 33
anni nel 34 d.C., si può datare la creazione di Adamo nel 5198 a.C. Poi spiega che
prima che i sudditi di Nembròt (che abbiamo trovato nel XXXI canto dell'Inferno parlare una lingua incomprensibile)
si accingessero alla costruzione impossibile da completare della torre di Babele,
si era già estinta la lingua che egli si inventò, perché i gusti degli uomini cambiano
con gli influssi degli astri, e nessuna opera dell'ingegno è immortale. La natura
ha dato all'uomo la facoltà di parlare, ma il modo è lasciato al gusto umano. Ad
esempio, Adamo chiamò Dio usando la parola "I", mentre in seguito gli ebrei usarono
la parola "El". Le parole degli uomini si avvicendano come le foglie su un ramo.
Infine, Adamo specifica il tempo che passò nel Paradiso terrestre, prima e dopo il peccato
per cui fu condannato: dalla prima ora (le sei del mattino) a quella che segue l'ora
sesta, quando il cielo muta quadrante, ossia entra nella seconda metà del giorno,
ossia dopo mezzogiorno, ossia all'una del pomeriggio: in totale sette ore solamente.
Questa informazione Dante la ricava dall'opera di Pietro Mangiadore, che abbiamo
incontrato nel XII Canto, nel cielo del Sole.
Canto XXVII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il XXVII canto del Paradiso
si apre con un grandioso coro di tutti i beati di gloria "al Padre,
al Figlio, a lo Spirito Santo", che inebria Dante, a cui sembra di vedere il "riso
de l'universo", e prorompe in esclamazioni sulla beatitudine
celeste, gioia perfetta senza più l'ansia del desiderio. Poi però il canto prende
un'altra piega: delle quattro anime di fronte a Dante, quella che per prima gli
si era presentata (San Pietro), comincia a cambiare il suo colore come potrebbero
fare Giove e Marte, se fossero uccelli che scambiassero tra loro le penne, diventando
cioè di un rosso vivace. Nel frattempo, secondo la disposizione della provvidenza
che organizza le vicende e i compiti di tutte le anime, si fa ovunque un grande
silenzio, e San Pietro inizia la sua celebre invettiva contro la corruzione della
Chiesa: "Se ho cambiato colore io, non meravigliarti di come vedrai mutare il colore di tutti mentre parlo.
Colui che usurpa in terra il soglio pontificio (il papa
Bonifacio VIII), che manca della presenza di Cristo (Dante riteneva legittima l'elezione
di Bonifacio, ma giudicava indegna la persona), ha trasformato la mia tomba
in una fogna che raccoglie il sangue delle discordie e il fetore delle turpitudini
e della corruzione, cosa di cui si compiace Satana, il perverso che cadde dal cielo,
fino al centro della Terra". Dante si guarda intorno e vede tutti i beati dello stesso
colore rosso che si dipinge nelle nuvole quando il sole le illumina dal basso all'alba o al tramonto.
Anche Beatrice ha mutato colore
come una donna onesta che arrossisce ascoltando le colpe altrui. In tal modo si dipinse il cielo quando si oscurò
al momento della morte di Cristo. La voce di Pietro, anch'essa mutata come il suo
aspetto, prosegue: "La sposa di Cristo, la Chiesa, non fu nutrita del sacrificio mio, di Lino (il secondo papa),
di Cleto (o Anacleto, terzo papa), perché diventasse
un mezzo per arricchirsi, ma solo per raggiungere la beatitudine celeste; per questo
anche i papi Sisto (II sec.), Pio (II sec.), Calisto (III sec.) e Urbano (III sec.)
subirono il martirio e piansero per le persecuzioni di cui la Chiesa era vittima.
Non era previsto che il papa si arrogasse il potere di distinguere i fedeli da salvare
e quelli da condannare, né che le chiavi del cielo che mi furono affidate diventassero
un simbolo sulle bandiere di armate mosse contro altri cristiani battezzati (probabile
allusione alla crociata di Bonifacio contro i Colonna, di cui si parla proprio nel
XXVII canto dell'Inferno), né che la mia immagine fosse apposta come sigillo su
privilegi concessi per denaro e non per benemerenze, cosa che mi riempie di vergogna
e sdegno. Da qui si vedono i falsi pastori aggirarsi nei pascoli come lupi rapaci,
ed ora anche le genti di Cahors e di Guascogna (i futuri papi Giovanni XXII e Clemente
V) si preparano ad approfittarne.
Ma come la Provvidenza difese Roma da Annibale,
mandando Scipione l'Africano, così provvederà presto al soccorso della Chiesa, come io vedo leggendo nella volontà
di Dio. E tu, che per il peso del tuo corpo mortale, tornerai di nuovo
sulla Terra, parla e riferisci senza nascondere quello che io non ti ho nascosto". In questo modo
Dante ribadisce la sua missione, come già gli avevano detto Cacciaguida (Paradiso
XVII) e Beatrice (Purgatorio XXXII). La luce dei beati torna ad essere bianca e
tutti si levano verso l'alto come una nevicata invernale, quando il sole è congiunto
con il Capricorno, che però sale invece di cadere verso il basso. Quando l'aria
interposta diventa troppa per poterli distinguere, Beatrice invita Dante a guardare quanto
si è mossa la Terra nel frattempo, ed egli vede che ha compiuto un quarto di giro:
sotto di loro si trova Cadice, e verso occidente vede il mare aperto dove
Ulisse (come narrato nel XXVI canto dell'Inferno) aveva intrapreso il suo "folle volo"; dall'altra parte,
vede fino alle coste di Creta (o della Fenicia) dove Giove si tramutò in toro
per rapire la ninfa Europa, di cui si era innamorato. Ci spiega Dante che avrebbe
potuto vedere di più, ma parte della Terra ("aiuola" intesa come "piccola aia")
era oscurata perché il Sole era spostato da lui di circa 45 gradi (un segno e mezzo dello zodiaco).
L'attenzione di Dante è di nuovo attirata da Beatrice, che desidera sempre ricondurre a lei il suo sguardo;
se la natura o l'arte fecero mai delle esche per gli occhi, per catturare il cuore,
sia nei corpi fisici delle persone o nelle pitture che ritraggono belle immagini,
tutte queste bellezze non sarebbero niente in confronto al piacere divino che risplende
in Dante attraverso il viso sorridente di Beatrice. E la virtù che questa visione gli concede
lo fa staccare dalla costellazione dei Gemelli (Castore e Polluce, nati dall'uovo
di Leda, amata da Giove trasformato in cigno), ed entrare nel nono cielo, il Primo
Mobile, la cui velocità sopravanza quella di tutti gli altri cieli. Questo è detto
anche Cielo Cristallino, perché non contiene stelle da cui Dante possa dedurre la
sua posizione. Beatrice sorride così lieta "che Dio parea nel suo volto gioire",
e spiega che la natura del mondo tiene fermo il centro dell'universo (la Terra)
e fa ruotare tutto il resto intorno ad esso, iniziando (e terminando) in questo
cielo, che non ha altra collocazione se non nella mente di Dio, l'Empireo, dove
hanno origine l'amore e la virtù che fanno girare il Primo Mobile e che poi esso
trasmette verso le sfere inferiori. Come una sfera, esso è circondato dall'Empireo,
che è luce ed amore, così come esso comprende le sfere sottostanti, ma questa recinto è solo metaforico,
e comprensibile solo da colui che lo contiene (Dio). Per tentare
di orientarci, è utile sapere che nel Convivio Dante afferma che l'Empireo è il
sovrano edificio del mondo, che contiene tutto l'universo, e al suo esterno non esiste niente:
esso non è in alcun luogo, ma è formato nella mente di Dio. Il
"Primo Mobile" sarebbe dunque anche il "Primo Luogo" definito, in questo Empireo
astratto. Il suo moto non si paragona a nessun altro, ma tutti sono misurati attraverso
di esso, come il numero dieci è composto dai numeri primi due e cinque. Poiché esso
è il moto fondamentale dell'universo, Dante può comprendere come il tempo stesso
abbia le sue radici in questo vaso (testo), e tenga le fronde nei cieli inferiori,
dove il movimento diventa visibile. Beatrice conclude il canto con la deplorazione
degli uomini, incapaci di alzare gli occhi a queste altezze celesti, perché perduti
nell'avidità dei beni materiali. Il desiderio di bene è innato nell'uomo, ma le cattive influenze
trasformano i buoni frutti (le susine vere) in frutta
guasta (il bozzacchione è una susina ingrossata e senza polpa). Solo i bambini hanno
fede e innocenza, ma la perdono prima della pubertà. Alcuni, da piccoli, ancora
balbettanti, osservano i periodi di digiuno e di astinenza, e poi, cresciuti, esperti
nel parlare, sono ingordi e non badano più ad alcun precetto. Altri, da piccoli,
amano ed ascoltano la madre, ma una volta cresciuti sono insofferenti e desiderano
solo la sua eredità. Così il desiderio dei beni terreni corrompe il bell'aspetto
della figlia del Sole (la Chiesa o forse Circe come simbolo dell'allettamento dei
beni terreni, se così è da intendere questa controversa terzina). Ma non deve meravigliare
che la famiglia umana sia così deviata, se si pensa che in terra gli uomini non
hanno né un papa che rappresenti Dio, né un imperatore che abbia un vero potere
temporale. Ma prima che il ritardo di data che si accumula ogni anno, a causa della
frazione di tempo trascurata (che era già conosciuta, anche se sarà risolta con
l'istituzione del calendario Gregoriano nel 1582), riesca a far uscire completamente
Gennaio dall'inverno (cosa che sarebbe avvenuta in circa 9000 anni), questi cieli
manderanno i loro influssi in modo da provocare la tempesta (il fortunale) tanto
attesa, che farà cambiare rotta alle navi, così che la flotta si dirigerà sicura
verso la meta, e finalmente dai fiori nasceranno dei veri frutti.
Canto XXVIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Dopo che, alla fine del canto precedente, Beatrice, che esalta a gioie paradisiache
la mente di Dante, gli ha reso evidente la misera condizione della vita degli uomini,
in questo XXVIII canto del Paradiso
pare a Dante di vedere negli occhi di lei (che per primi catturarono il suo amore)
un lume riflesso come chi vedesse riflesso in
uno specchio un candelabro a due candele posto alle sue spalle, e si volta per vedere
se la realtà si accorda con la visione come fa il canto con la musica. Così, dal
Primo Mobile o Cielo Cristallino in cui si trova, vede in alto un punto che spende
tanto da abbagliare chiunque lo guardi, malgrado sia di dimensioni così piccole
che la stella più piccola, al suo confronto, sembrerebbe grande come la luna. Intorno
ad esso, distante quanto l'alone prodotto da una nebbia spessa intorno a un astro,
era situato un cerchio di fuoco che girava così velocemente, che avrebbe vinto anche
il velocissimo cielo Primo Mobile. Un secondo cerchio di fuoco lo circondava, e
poi un terzo, e un quarto, un quinto e un sesto. Il settimo era così grande che
un arcobaleno intero (Iride, la messaggera di Giunone) sarebbe stato stretto a contenerlo.
Ancora più ampi l'ottavo e il nono cerchio di fuoco. Gradualmente, i cerchi più
lontani giravano più lentamente di quelli più vicini, che avevano anche la luce
più fulgente. Dante li guarda con una
grande ansia di conoscenza, così Beatrice spiega:
"Dal punto centrale, dipende tutto il cielo e tutta la natura (è Dio). Il cerchio che gli è più vicino si muove più
velocemente per l'ardente amore che lo spinge". Dante però osserva che il mondo
materiale non è strutturato in modo uguale a questi cerchi concentrici, perché i
cieli si muovono più velocemente man mano che si allontanano dal centro, e dunque
se qui nel Primo Mobile (che ha per confine solo l'amore e la luce dell'Empireo)
egli deve conoscere il rapporto tra il mondo fisico e il mondo ideale, deve capire
il perché di questa differenza. Così Beartice spiega: "Non meravigliarti se le tue
dita non sono sufficienti a sciogliere questo nodo, che si è indurito perché nessuno
ha mai tentato di scioglierlo. Ascolta e rifletti su quanto ti dico: i cerchi dei
cieli sono larghi e stretti secondo la quantità di virtù infusa in ogni loro parte;
maggiore bontà, vuole produrre maggiore influsso benefico, e per contenerlo è necessario
un corpo più grande, se le sue parti sono ugualmente dense. Ma se ti concentri sulla
quantità di virtù, e non sulle dimensioni fisiche, vedrai che l'intelligenza che
governa ciascun cielo corrisponde ad esso in modo preciso, maggiore con maggiore
e minore con minore". Così Dante risolve i suoi dubbi e la sua mente torna come
il cielo sereno quando soffia il vento di Maestrale (corrispondente alla guancia
destra della rappresentazione iconografica del vento di Borea) che pulisce ogni
nuvolaglia ("roffia") in ogni angolo ("paroffia" sta per "parrocchia") del cielo,
e la verità gli torna visibile e chiara come una stella in cielo. Dante desiderava
comprendere questa corrispondenza perché i nove cerchi infuocati intorno al punto-Dio
corrispondono alle nove gerarchie angeliche che sono le intelligenze motrici dei
nove cieli che abbiamo attraversato. Terminata la spiegazione, i giri angelici sfavillano
come ferro incandescente, e gli angeli - scintilla gli appaiono essere così tanti,
che il loro numero supera quello ottenuto quando si raddoppia una cifra per ogni
casella degli scacchi. Questo verso allude alla storia secondo cui il re di Persia
offrì una ricompensa all'inventore degli scacchi, e questi gli chiese un chicco
di grano per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza, e così
via, raddoppiando per ogni casella fino alla sessantaquattresima. Si potrebbe pensare
che un sacco di grano potrebbe bastare, ma il numero di chicchi totale corrisponde
a oltre 18 miliardi di miliardi, che è stato stimato essere equivalente al raccolto
mondiale di 1500 anni. Tutte le gerarchie angeliche cantano le loro lodi a Dio,
e Beatrice, vedendo il desiderio di Dante, continua a spiegare: "I due primi cerchi
sono Serafini e Cherubini, e girano così veloci intorno al punto che li tiene legati
dall'amore, perché somigliano a Dio in modo proporzionale alla loro visione. Il
terzo giro è quello dei Troni del divino aspetto, dove Dio si siede quando emette
i suoi giudizi, e con i quali è stata conclusa la prima gerarchia angelica. Tutti
partecipano alla gioia divina nella misura in cui la loro vista si inoltra nel vero
che appaga ogni intelletto. Da qui si può capire come la beatitudine si fonda nell'atto
del vedere, e poi nell'amore che da questo segue, mentre la visione è concessa in
base al merito, che si acquista con la buona volontà e la grazia di Dio. La terna
angelica successiva, che fiorisce in questa eterna primavera (in cui Ariete non
è mai notturno, ossia è sempre congiunto con il Sole, ossia è sempre Marzo-Aprile),
canta in perpetuo "Osanna" con tre melodie, corrispondenti ai tre ordini di letizia
da cui è composta: Dominazioni, Virtù e Potestà. Negli ultimi tre ordini, troviamo
Principati ed Arcangeli, e l'ultimo è tutto una festa di Angeli propriamente detti.
Tutti questi ordini guardano ammirati in alto, e fanno sentire la loro influenza
tirando gli inferiori a sé, essendo attratti da Dio e attraendo verso l'alto gli
ordini inferiori e ogni altra cosa. Questa gerarchia è stata descritta da Dionigi
l'Aeropagita, anche se poi papa Gregorio Magno propose una gerarchia diversa, ma
poi, quando risorse qui a nuova vita celeste, rise di sé stesso constatando il suo
errore. Ma non meravigliarti se Dionigi ha rivelato questo ordine in modo corretto:
infatti gli fu rivelato, insieme ad altre verità sul Paradiso, direttamente da San
Paolo, che ebbe la grazia di vedere questi cieli". In realtà gli studiosi moderni
attribuiscono il "De Coelesti Hierarchia", che è la fonte originale di Dante, non
a San Dionigi, giudice dell'aeropago ateniese convertito da San Paolo, ma ad un
secondo Dionigi l'Aeropagita, denominato per distinguerlo "pseudo Dionigi", teologo
bizantino del V secolo.
Canto XXIX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel XXIX canto del Paradiso Beatrice
prosegue e completa il discorso sugli angeli. A noi possono sembrare ragionamenti
oziosi, ma all'epoca di Dante c'era una discussione piuttosto accesa, ed egli ne approfitta
per esporre il suo punto di vista, che compendia quello di molti pensatori della
sua epoca, ed in questo caso San Bonaventura da Bagnoregio lo influenza più di San
Tommaso. Il canto si apre con una parafrasi astronomica usata per descrivere la
lunghezza della pausa che fa Beatrice riguardando il punto luminoso di Dio. Sulla
sua interpretazione ci sono dubbi e quindi anche sulla durata della pausa, ma la
versione che preferisco è quella che lo interpreta come circa un minuto. I figli
di Latona sono Apollo e Diana, che simboleggiano il sole e la luna. Quando il sole
è in Ariete si ha l'equinozio di primavera, e allora, con la luna piena in Bilancia
dalla parte opposta del cielo, i due corpi celesti si possono ammirare contemporaneamente
ai punti opposti dell'orizzonte, mentre uno sorge e l'altro tramonta, mentre lo
zenit (il punto convenzionale del cielo sempre diritto sulla verticale) sta in mezzo
a loro come il perno di una bilancia. Tanto tempo occorre ai due astri per liberarsi,
staccarsi completamente dall'orizzonte (il tempo di un mezzo tramonto o di una mezza
alba, circa un minuto), quanto tempo Beatrice rimane sorridendo in silenzio con
gli occhi fissi al punto-Dio. Poi inizia la sua torrenziale dissertazione che occupa
tutto il resto del canto: "Ti dirò quello che vuoi sapere, senza chiedertelo, perché
l'ho visto là dove si fa punto ogni "dove" ed ogni "quando" (nel punto- Dio). Dio
creò gli angeli, aprendosi in nuovi amori, non per acquisire un maggior bene, cosa
impostulabile per la sua perfezione eterna, ma perché il suo splendore, riflettendosi
in altri esseri, potesse dire "io esisto" (ossia, perché altri esseri potessero
avere coscienza della propria esistenza, avendo in sé lo splendore divino), quando
ad Egli piacque, al di fuori del tempo e dello spazio. Ma non pensare che prima
fosse come in un torpore inoperoso, perché il tempo stesso fu creato insieme allo
spazio (come secondo Sant'Agostino), nel processo della creazione di questo cielo
(il Primo Mobile o cielo cristallino, chiamato anche "acqueo"). La forma (forma
pura, o "atto" puro, le Intelligenze Celesti) e la materia (materia pura o "potenza"
pura, gli elementi fuoco-aria-acqua-terra) iniziarono ad esistere senza imperfezioni
("che non avìa fallo"), sia assolutamente pure ("purette" è intensitivo) sia mescolate
tra loro (formando i nove cieli che separano l'Empireo dalla Terra con il suo cielo
infralunare), come tre frecce scagliate insieme da un arco con tre corde (che però
pare non esistesse veramente). E come la luce si diffonde istantaneamente in un
oggetto trasparente, così questi tre effetti della creazione iniziarono ad esistere
simultaneamente, come l'ordine e la stuttura di tutte le sostanze. Nella parte alta
del mondo furono poste le Intelligenze Celesti (puro atto), mentre la materia formata
dai quattro elementi (potenza pura) fu posta in basso. Nel mezzo (nei nove cieli)
esse crearono un legame così intricato, che non sarà mai sciolto. San Girolamo scrisse
che passarono molti secoli dalla creazione degli angeli alla creazione del mondo,
ma la verità è quella che ti ho detto, che se guardi bene, si può trovare in più
passi della Bibbia (Gen. 1,1: "In principio Dio creò il cielo e la terra..."), e
del resto anche razionalmente non sembrerebbe ammissibile che gli angeli, in quanto
Intelligenze Celesti e Motori dei vari cieli, siano rimasti a lungo inoperosi e
quindi incompleti (argomento derivato da Aristotele). Dopo la loro creazione, non
si sarebbe potuto contare fino a venti, che una parte degli angeli (secondo quanto
è scritto nel Convivio, la decima parte) cadesse, turbando il più basso degli elementi
terreni (la terra), mentre gli altri iniziarono la loro contemplazione di Dio, ed
il loro vorticoso ruotare, che non finirà mai. Causa della caduta fu la superbia
di Lucifero, che hai potuto vedere imprigionato al centro di tutti i pesi del mondo.
Quelli che vedi qui, ebbero l'umiltà di riconoscere la propria esistenza come dono
della bontà di Dio, che li aveva creati predisposti ad una così alta comprensione.
Così la loro virtù visiva e intellettuale fu accresciuta dalla grazia e dal loro
merito, tanto che la loro volontà diventò pienamente e definitivamente coincidente
con quella di Dio. Non devi dubitare del fatto che ricevere la grazia costituisca
anche un merito, perché essa è concessa in proporzione al desiderio di riceverla
(come secondo San Bonaventura). Adesso hai già una buona conoscienza di questa comunità
di angeli, anche senza altri aiuti. Ma poiché in terra si insegna ("si legge") in
alcune scuole che la natura angelica è tale che capisce, si ricorda ed ha la volontà,
parlerò ancora per farti vedere la verità che si equivoca in quell'insegnamento:
poiché gli angeli sono costantemente in contemplazione di Dio, dove è compresente
ogni verità, e non sono mai distolti da un oggetto di attenzione diverso, essi non
hanno bisogno della facoltà della memoria; così chi insegna diversamente sogna ad
occhi aperti, credendo (o, cosa ancor più colpevole e vergognosa, senza neanche
crederlo) di dire il vero. Ma quando voi fate filosofia, non percorrete la sola
via della verità, e vi perdete per il gusto e la preoccupazione (il pensiero) di
apparire originali. Questo può anche essere tollerato, ma non quando per esso si
mettono in secondo piano gli insegnamenti delle Sacre Scritture, o peggio ancora,
si distorgono sofisticamente per sostenere dei teoremi filosofici personali. Si
dimentica quanto sangue di martiri è costata la sua diffusione nel mondo, e come
sia gradito a Dio chi si accosta umilmente alle Scritture. Invece ognuno, per apparire
originale, s'ingegna a proporre le proprie invenzioni, che poi vengono predicate
al posto del Vangelo. Ad esempio, c'è chi sostiene (tra gli altri, San Tommaso e
Alberto Magno), che quando il cielo diventò buio nell'ora della morte di Gesù, fu
perché la luna provocò un'eclissi, muovendosi indietro verso il sole (poiché ciò
avvenne il venerdì di Pasqua, avrebbe dovuto essere quasi piena, in opposizione
al sole): ma dice il falso ("mente" non è probabilmente inteso qui come "volontà
di ingannare"), perché la luce si nascose da sé (come secondo San Bonaventura),
ed infatti sparì per tutti, anche per gli spagnoli e gli indiani, non solo per gli
ebrei (come sarebbe stato nel caso di una eclissi). Non ci sono in Firenze tante
persone che si chiamano "Lapo" e "Bindo" (diminutivi di "Iacopo" e "Ildebrando",
nomi all'epoca molto diffusi), quante favole come questa si gridano ovunque dal
pulpito ("pergamo"), così che i fedeli tornano a casa nutriti d'aria, ma questa
ignoranza del danno che subiscono non può giustificare la mancata conoscenza che
dovrebbero avere del Vangelo. Gesù non invitò i suoi apostoli a predicare ciance,
ma gli diede un insegnamento vero, che risuonò nelle loro predicazioni, ed il Vangelo
fu il loro lo scudo e la loro arma. Adesso si predica con battute di spirito e con
lazzi ("iscede"), e se gli uditori ridono, i frati gongolano gonfiando il cappuccio
di orgoglio, e non chiedono di più. Ma se il volgo vedesse l'uccellaccio satanico
nascosto nella punta del loro cappuccio (il "becchetto"), vedrebbe quanto valgono
le indulgenze di cui si fida tanto: fiducia mal riposta, cresciuta in modo tanto
stolto, che ormai si correrebbe ad ogni promessa di indulgenza, anche senza alcuna
prova di validità. Di questa credulità, i frati dell'ordine di Sant'Antonio (che
era rappresentato con un porco ai piedi, simbolo del demonio di cui aveva vinto
le tentazioni), ingrassano il loro porco (i frati avevano fama di avidità e allevavano
maiali con i proventi delle indulgenze), ed altri che che sono più porci ancora
(le loro concubine e i loro figli illegittimi), pagando con una moneta senza valore
(le indulgenze non valide che essi vendevano). Ma per non divagare troppo, concludiamo
la disquisizione sugli angeli, senza perdere altro tempo: il loro numero è talmente
alto, che non può essere espresso a parole e nemmeno immaginato dalla mente umana;
se consideri il racconto di Daniele, ti renderai conto che il numero che indica
è puramente simbolico (Daniele, VII, 10: "Mille migliaia Lo servivano, e miriadi
di miriadi stavano davanti a Lui", dove "miriade" tecnicamente vale diecimila, ma
generalmente sta a significare un numero enorme). La luce divina, che si irradia
in tutte le Intelligenze Celesti, viene raccolta da esse in tanti modi, quanti sono
gli angeli che ne fanno parte. Perciò, poiché l'ardore del loro amore verso Dio
è proporzionale alla conoscenza intellettiva che ne hanno, la loro beatitudine ("d'amar
la dolcezza") ha per ognuno una diversa intensità (fervore o tepore). Adesso puoi
comprendere l'altezza sublime e la magnificenza di Dio, che si rifrange in tutte
le sue creature come in tanti specchi, pur rimanendo Uno e immutabile come sempre
è stato".
Canto XXX
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Con il XXX canto del Paradiso lasciamo il cielo del Primo Mobile, il "maggior corpo" (costituito
da materia, sia pure dalla speciale "quintessenza"), ed entriamo finalmente nell'Empireo, "luce intellettual,
piena d'amore", che non è un corpo, ma pura luce,
intelletto divino, al di fuori del tempo e dello spazio: siamo "nella
mente di Dio". Il canto si apre con una similitudine che necessita qualche spiegazione geografica:
poiché l'astronomo Alfragano stimava la circonferenza terrestre
in 20.400 miglia, anche se non si sa bene a quanto corrispondesse un miglio arabo
(un miglio romano corrisponde a 1.480 metri), "seimila miglia" corrispondono a circa
sette ore, e poiché l'ora sesta è mezzogiorno, la perifrasi indica l'ultima ora
prima dell'alba, quando il cielo inizia a rischiararsi: "Forse è mezzogiorno a seimila
miglia ad est, e l'ombra della Terra si avvicina al piano orizzontale, quando
lo spazio del cielo profondo inizia a rischiararsi, e le stelle, viste dalla superficie
della terra, spariscono gradualmente, mentre l'alba (l'ancella del Sole) avanza,
così che il cielo chiude tutte le sue finestre (le stelle), finché non sparisce anche
la più luminosa". Allo stesso modo Dante vede scomparire la visione del trionfo
degli angeli che circondano il punto-Dio che catturava la sua attenzione, e che
in realtà circonda e comprende in sé tutti quei cori e tutto l'universo (è notevole
il parallelo che può essere fatto con il nostro "io" più profondo e la rappresentazione
del mondo esterno che attraverso i sensi viene ricostruita all'interno della nostra
mente: "io" mi vedo nel mondo esterno, ma l'immagine del mondo che vedo è
una ricostruzione fatta all'interno della mia mente). Non riuscendo più a distinguere
la visione, e desiderando (come sempre) riguardare Beatrice, Dante torna con gli occhi
a lei. Questa volta la sua bellezza supera ogni possibilità di descrizione: "Se
tutte le lodi che ho già detto fossero qui raccolte in una sola, non sarebbero adeguate
a questo compito; la bellezza che vidi non solo oltrepassa la misura della capacità
umana, ma credo che solo Dio possa goderla pienamente. A questo compito mi dichiaro
vinto più di qualsiasi altro scrittore di stile medio o alto (commedia o tragedia)
sia mai stato superato dalla difficoltà del suo tema. Come il sole a chi ha la vista
debole, il solo ricordo del suo sorriso è sufficiente a indebolire il mio intelletto.
Dal primo giorno in cui vidi Beatrice nella sua vita mortale, e fino a questo momento,
non mi è mai stato impedito di cantarne ("preciso" vale "reciso", "tagliato"), ma ora
è il caso che io rinunci all'impresa di rendere la sua bellezza nella mia poesia,
come un artista che è giunto all'ultimo limite delle sue capacità espressive". Così
bella come Dante la lascia ad una voce poetica maggiore della sua (e da ciò che
ha detto, pensa evidentemente ad una voce celeste, non umana), Beatrice annuncia
con il tono di una guida pronta e sollecita: "Noi siamo usciti fuori del maggior
corpo (il cielo del Primo Mobile) e siamo entrati nel cielo che è pura luce (l'Empireo):
luce intellettuale, piena d'amore (la conoscenza); amore di vero bene, pieno di
letizia (l'amore verso Dio e da lui ricambiato); letizia che trascende ogni dolcezza (lo stato
di beatitudine). Qui vedrai gli angeli e i beati, e questi potrai vederli in quell'aspetto
che avranno dopo il Giudizio Universale". Questa è una notevole eccezione
riservata a Dante qui nell'Empireo, dato che finora ha visto solo le anime dei beati,
circondate di luce, ma prive del loro corpo terreno. Un lampo improvviso avvolge Dante,
rendendo i suoi occhi incapaci di percepire altri oggetti, che eccedono la
sua facoltà visiva. Spiega Beatrice: "L'amore che appaga questo cielo (Dio) accoglie
chi arriva con questo saluto (che rappresenta la sua grazia), per renderlo adatto
alla sua visione". Infatti Dante sente già tutti i suoi sensi diventare più capaci,
e la sua vista diventare in grado di sopportare una luce di qualsiasi intensità.
Così inizia a scorgere una specie di fiume di luce rosseggiante che scorre tra due
rive meraviglisamente fiorite; e da questo vede uscire delle vive faville che si
posano
in mezzo ai fiori, come rubini incastonati in monili d'oro, e poi, come inebriate
dal profumo, si rituffano nelle acque luminose del torrente, da cui subito ne scaturiscono
altre. Riprende Beatrice: "Il gran desiderio che hai di comprendere
ciò che vedi, più mi piace quanto più cresce; ma prima di spiegarti, guarda meglio
questo spettacolo.
Il fiume, le pietre preziose e i fiori che vedi, non sono che
apparenze provvisorie della verità, che tu non riesci ancora a distinguere bene,
perché la tua vista non si è ancora fatta abbastanza forte". Non c'è un infante che, svegliato molto più
tardi del solito, protenda il viso verso il latte, più velocemente di Dante che,
per il desiderio di migliorare la sua visione, si china verso il l'acqua, che scorre
perché chi la ammira diventi migliore. Perfezionando la sua visione, si accorge
che il fiume in realtà è un lago rotondo e, come persone che si tolgano le maschere
("larve"), i fiori e le faville si mostrano essere in realtà beati ed angeli. Invoca
Dante: "Oh, splendore di Dio, per cui ebbi la grazia di vedere il sublime trionfo
dell'Empireo, concedimi la virtù necessaria per raccontare adeguatamente ciò che
vidi!". L'uso della stessa parola "vidi" che rima solo con sé stessa ha un precedente
solo nel nome di Cristo, come visto nei canti XII, XIV e XIX del Paradiso. Questa
forte evidenzazione carica la parola di un significato chiave, per comprendere il
quale occorre ricordare come nel canto XXVIII ci sia stato spiegato che la beatitudine
si fonda nell'atto del vedere. La luce che risplende da Dio illumina questo lago,
che si distende più dell'orbita del Sole; questa luce ha origine da un raggio che
da Dio si riflette sulla superficie esterna del Primo Mobile, che da esso riceve
la sua virtù vitale; e come un colle si rispecchia in un lago ai suoi piedi, compiacendosi
di vedersi ricco di erbe e fiori, così tutto intorno al lago di luce Dante vede
specchiarsi più di mille gradini circolari con tutte le anime dei beati ritornate
al cielo, la loro vera dimora; e se la base del lago è più larga dell'orbita del
Sole, si pensi quanto è larga questa rosa di beati nei petali più esterni! Nonostante
la sua dimensione, Dante riesce a vedere tutto il panorama interamente e chiaramente:
lassù, dove Dio governa direttamente, la legge naturale non vale più, e la lontananza
non impedisce di distinguere perfettamente tutto ciò che si guarda. Beatrice porta
Dante, che tace ma vorrebbe chiedere molte cose, fino al centro di questa rosa perpetua
(dove in una rosa vera ci sono gli stami gialli), che si estende gradatamente, e
si dilata, e profuma ("redòle", da "redolire", "mandare un intenso profumo") di
lode (una rosa che manda un profumo di lode!) a Dio, il sole che produce una primavera
eterna ("vernare" in questo caso non va inteso come "passare l'inverno", ma piuttosto
come "fare primavera", la cui etimologia deriva dal latino "ver" -"primavera"- invece
che da "verno" -"inverno"-). "Guarda" dice Beatrice, "quanto è grande il concilio
dei beati, quanto è ampia la nostra città, e vedi quanti pochi posti siano ancora
liberi (una volta completi, si riteneva sarebbe avvenuto il Giudizio Universale).
E in quel seggio che già stai guardando, perché ha sopra di sé una corona (scolpita?
dipinta? posata sopra? io l'ho immaginata incisa nella parte superiore dello schienale),
prima che tu torni definitivamente a questo convivio celeste, siederà l'anima che
in terra fu augusta (rivestita di autorità imperiale), del grande Arrigo (o Enrico
VII, che nel giugno 1313 fu incoronato imperatore), che tentò di governare l'Italia
prima che questa fosse pronta ad accoglierlo (ebbe molti contrasti, non riuscì a
imporre il suo comando, e morì nell'agosto 1313). La cupidigia ha reso gli italiani
simili al bimbo che, accecato dalla fame, irragionevolmente caccia via la balia
che viene per nutrirlo. E in quel momento, sarà a capo della Chiesa un tale (Clemente
V) che lo ingannerà, comportandosi con lui ufficialmente in un modo, ma segretamente
in un altro. Ma Dio lo sopportarà poco tempo come papa, e presto sarà sprofondato
nella bolgia dei simoniaci (Inferno XIX), dove caccerà ancor più in basso colui
che venne da Alagna". Il predecessore di Clemente V fu il papa Bonfacio VIII, nato
ad Anagni ("Alagna"), dove poi subì l'oltraggio dello schiaffo di Sciarra Colonna
(1303, poco prima della sua morte). Nella bolgia dei simoniaci, il papa Niccolò
III, conficcato a bruciare a testa in giù in un foro del pavimento, scambia Dante
per il Bonifacio VIII, che sa già essere condannato a raggiungerlo, e che, conficcato
nello stesso foro sopra di lui, lo farà sprofondare più in basso. Beatrice, con
queste sue ultime parole dall'Empireo, ribadisce definitivamente
la condanna di Bonifacio VIII, e ci comunica che alla stessa sorte è destinato anche
il papa successivo.
Canto XXXI
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel XXXI canto del Paradiso
prosegue la descrizione della "candida rosa" dei beati, che a Dante appaiono con
le vesti bianche, come saranno dopo il giorno del Giudizio, seduti nei loro troni,
nelle gradinate di un immenso anfiteatro celeste. Essi formano "la Chiesa trionfante",
(in contrapposizione alla "Chiesa militante" che rappresenta la comunità dei fedeli
ancora in vita), che è definita "la sposa di Cristo", redenta dal sangue del suo sacrificio.
L'altra milizia santa, la schiera degli angeli, vola cantando la gloria di Dio, e come
api che volano dall'alveare ai fiori, fanno una spola continua tra Dio e i beati,
come messaggeri infaticabili. I loro visi sono rosso fuoco, le ali sono d'oro, le
vesti più bianche della neve. Essi scendendo tra gli scanni dei beati elargiscono
la pace e l'ardore di carità che ricevono volando fino a Dio. La loro presenza però
non è d'ostacolo ai beati che rimirano Dio, perché la luce divina penetra in tutte
le parti dell'universo proporzionalmente al merito, che qui è massimo. Questo regno
è popolato di beati nati prima e dopo di Cristo, che non hanno che occhi e amore
per Dio."Oh, quanto li appaga quella luce una e trina che scintilla come una
stella!" esclama Dante (in veste di pellegrino che ammira lo spettacolo), che poi
(in veste di scrittore tornato sulla terra) invoca: "Guarda qui in basso alle nostre
tempeste umane!" E aggiunge un paragone, con un ultimo amaro accenno alla sua città natale:
se i barbari (prigionieri, mercenari o invasori, non è chiaro) che abitavano quella
regione settentrionale in cui la costellazione dell'Orsa Maggiore e la vicina costellazione
di Boote (o del Bifolco) non tramontano mai (secondo la mitologia, Èlice - o Calisto
- era una ninfa sedotta da Giove, che poi Giunone trasformò in un'orsa, e Giove
in una costellazione; il figlio fu trasformato nell'altra costellazione, che gli
antichi chiamavano Arctofilace, il custode dell'orsa), se essi, venendo a Roma, si
stupivano della sua grandezza, vedendo il Laterano (prima sede imperiale, e poi
del Papa), che superava le altre opere mortali, si immagini quanto fosse stupito
Dante, giunto al regno eterno da quello umano, dal tempo all'eternità, dalla lacerata
Firenze al popolo giusto e sano dell'Empireo! Lo stupore e la gioia lo fanno rimanere
assorto e silenzioso. Come il pellegrino che si riposa giunto nel tempio dove aveva
fatto voto di andare, e guarda attentamente, immaginando già di raccontare com'era fatto
dopo il suo ritorno, così Dante passa con gli occhi per la viva luce, su e giù e tutto
intorno, di gradino in gradino. Vede ovunque volti da cui traspare l'ardore di carità
("suadi", ispirati dalla carità, o che allettavano alla carità), ornati dal riso
e dallo splendore di Dio, con atteggiamenti onesti e composti. Dante ha abbracciato
il Paradiso con uno sguardo d'assieme, e si rivolge nuovamente verso Beatrice per
farle delle domande: ma ecco un evento inatteso: al posto di Beatrice è apparso
un anziano beato con la stola bianca, dal cui volto ("gene" sta per "guance") traspare
una letizia piena di bontà, mite come un tenero padre. Dante spontaneamente chiede
subito: "Dov'è ella?", E lui: "Beatrice ha mandato me per compiere il tuo desiderio;
se guardi nel terzo gradino dall'alto, la vedrai nel trono che ha meritato". Dante
guarda e la vede incoronata da un'aureola di luce. Anche se è più lontana da lui
di quanto sia lontana la parte del cielo in cui si formano i tuoni dal più profondo
abisso dell'oceano, Dante riesce a distinguerla benissimo, perché nessun mezzo fisico
si interpone tra la sua immagine e il suo occhio. Così Dante le rivolge un saluto
che è insieme un ringraziamento e una preghiera (per l'unica volta dandole il "tu"
che si usa nelle preghiere): "O donna che dài forza alla mia speranza, e che per
la mia salvezza hai sopportato di camminare fino all'Inferno (per chiamare Virgilio),
per le tante cose che ho visto riconosco la grazia e la virtù che derivano dal tuo
potere e dalla tua bontà. Tu mi hai tolto dalla servitù del peccato, con tutte le
facoltà di cui disponevi. Conserva intatti dentro di me i frutti della tua munificenza,
così che la mia anima si sciolga dal corpo purificata come tu l'hai resa". Beatrice
si volta, lo guarda e sorride; poi torna a contemplare Dio. Riprende l'anziano beato:
"Perché tu compia il tuo cammino, come mi ha pregato Beatrice, scorri con lo sguardo
per le anime di questo giardino, la cui visione ti preparerà la vista alla visione di Dio.
So che la regina del cielo (Maria) ti concederà la grazia, perché io sono il suo devoto San Bernardo".
San Bernardo di Chiaravalle fu un monaco cistercense del XII secolo che sostenne
la supremazia della rivelazione sulla ragione; la visione di Dante a volte è più
vicina ad altri filosofi e pensatori medioevali, ma in questo caso il suo ruolo
di intercessore presso la Vergine è particolarmente adatto perché era devotissimo a
lei (ed anche Dante, come traspare ad esempio dal canto XXIII del Paradiso), ed
era un mistico talmente dedito alla contemplazione, da perdere letteralmente i sensi.
Così come uno straniero giunge a Roma da un paese lontano come la Croazia, per vedere
la Veronica, ossia l'immagine che riproduce il volto di Gesù, rimasta impressa nel
panno che una pia donna usò per ascugargli il sangue durante la salita al Calvario
("Veronica" deriva da "vera icon", che significa "vera immagine"), che incredulo
si ripete "Oh mio signor Gesù, queste erano le vostre sembianze?", così rimane Dante
guardando colui che, nelle sue estasi mistiche, già sulla terra aveva pregustato
la pace celeste. Bernardo lo invita a riguardare il giro più alto dei beati, fino
a vedere la Madonna, la regina di tutti i beati. Dante alza
lo sguardo, e come la luce del mattino si rischiara a oriente mentre a occidente
è ancora scuro, così vede da una parte la luce essere più forte che altrove. E come
dalla parte dove si aspetta il sorgere del sole (il carro il cui timone fu guidato
male da Fetonte, che si schiantò dopo averlo preso al padre Elios) la luce si fa
più intensa, mentre resta minore ai lati, così quella pacifica orifiamma (lo stendardo
di guerra che tradizionalmente fu dato a Carlo Magno da Cristo), ossia quella parte
di candida rosa, si faceva più rossa in un punto preciso, dove Dante vede più di
mille angeli festanti, con le ali aperte, ognuno diverso per splendore e movimento.
Tra i loro giochi e i loro canti, vede ridere Maria, di una bellezza tale, che se
anche egli avesse tanta ricchezza di espressione quanta capacità di ritenere le immagini
vedute, Dante non oserebbe comunque tentare di descrivere la minima parte della
delizia che deriva dalla sua bellezza. Come Bernardo vede gli occhi di Dante fissi
all'ardore della carità di Maria, volge a lei il suo sguardo con tanto affetto,
che rende gli occhi di Dante ancora più desiderosi di guardarla.
Canto XXXII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Nel XXXII canto del Paradiso
San Bernardo indica a Dante alcuni dei beati più importanti, prima di prepararsi
alla preghiera alla Vergine con cui inizierà l'ultimo canto. Benché tutto preso
("affetto") dalla contemplazione di Maria, Bernardo si assume liberamente il compito
di illustrare a Dante la rosa dei beati: Ai piedi di Maria (nel seggio dell'ordine
subito inferiore) Dante vede colei che aprì la piaga che Maria medicò e guarì (Eva,
che con Adamo commise il peccato originale, perdonato solo dall'avvento di Cristo).
Nei seggi che costituiscono il terzo ordine può vedere Rachele (la moglie di Giacobbe,
simbolo della vita contemplativa) con accanto Beatrice (come già annunciato sin
dal II canto dell'Inferno). Sotto Rachele, vede Sara (moglie di Abramo e madre di
Isacco), sotto di lei Rebecca (moglie di Isacco e madre di Esaù e Giacobbe), ancora
sotto c'è Giuditta (che uccise Oloferne, come la Bibbia racconta nel libro di Giuditta,
13, 8), e poi (siamo nel settimo ordine) Ruth (che, come racconta il libro omonimo
della Bibbia, diventò ebrea per seguire e accudire la vecchia suocera Noemi) che
è designata come bisavola (bisnonna) di Davide (secondo la genealogia citata da
Matteo, 1, 5-6), che a sua volta è designato come il cantore che per dolersi del
suo peccato (l'adulterio con Betsabea) compose il salmo "Miserere mei". Proseguendo
verso il basso oltre il settimo grado, continuano a succedersi le più famose donne
ebree, tracciando una linea di separazione della rosa in due emicicli, distinguendo
i beati in base alla data di nascita di Cristo. Da una parte (a sinistra di Maria e le
altre ebree) sono seduti coloro che credettero nella venuta futura di Cristo, e
i seggi sono tutti occupati; dall'altra, dove si possono vedere alcuni seggi ancora
vuoti, sono seduti coloro che credettero nel Cristo venuto. E come Maria e le donne
ebree formano una linea di divisione, così di fronte a loro formano la corrispondente
linea di divisione, a partire dal grado superiore, i seggi di San Giovanni Battista
(ultimo profeta ebreo e primo santo cristiano) che, santo fin dal concepimento (Luca,
1, 15), sopportò la vita nel deserto e il martirio, e due anni di limbo (prima che
Gesù risorgesse), nel grado subito sotto c'è San Francesco, sotto ancora c'è San
Benedetto da Norcia e sotto di lui Sant'Agostino. San Bernardo non nomina i successivi,
ma come i precedenti, si presumono essere fondatori di Ordini monastici, o meglio, estensori delle
loro regole fondamentali. Bernardo fa notare a Dante come i posti siano destinati
in parti uguali a beati nati prima e dopo di Cristo. Poi gli indica una divisione
orizzontale, al di sotto della quale siedono anime assolte (sciolte dal corpo, o
dal peccato originale) prima che potessero avere la capacità di distinguere il bene dal
male, e quindi non per loro merito: come si capisce dai volti e dalle voci, sono
tutti bambini. Dante è preso da un dubbio inespresso ("sile", sta in silenzio) che però Bernardo comprende
e scioglie: all'interno dell'Empireo nessuna cosa è messa a caso, come non c'è posto
per tristezza, fame o sete; tutto corrisponde al volere divino, come un anello al
dito. Queste anime che sono venute prematuramente alla loro vera vita non sono distribuite
in gradi diversi senza un motivo. Dio, che appaga tutti i beati con tanto amore
per cui nessuno osa ("àusa") desiderare di più, al momento della creazione di ogni
anima, la dota di una diversa quantità di grazia, e di questo non è possibile capire
la causa ("e qui basti l'effetto"). Questo è espresso chiaramente nella scrittura
(Genesi, 25,22), dove si narra che Esaù e Giacobbe (inviso il primo ed amato il
secondo da Dio) erano in discordia già nel ventre della loro madre Rebecca. Perciò
è giusto che la luce della grazia faccia aureola ("s'incappelli") secondo quanto
Dio ha preordinato, che si rivela con i segni fisici ("il color d'i capelli", come
nel caso di Esaù e Giacobbe, il primo rossiccio e il secondo dai capelli neri).
Così i bambini, anche senza merito per la loro condotta, sono disposti in gradi
diversi secondo la grazia attribuita loro da Dio al momento del concepimento (da
ateo, mi piacerebbe sapere come i teologi moderni risolvono questa questione). Nelle
prime generazioni umane ("ne' secoli recenti") bastava la fede dei genitori, per
essere salvi; poi fu necessario che i maschi fossero circoncisi quando ancora erano
nell'età dell'innocenza, e dopo l'avvento dell'era cristiana, i bambini senza battesimo
sono trattenuti nel limbo (anche qui, sarei curioso di sentire la versione di qualche
teologo moderno...). Poi Bernardo torna ad invitare Dante a guardare il viso della
Madonna che, come madre di Cristo, ha il viso che più gli somiglia, e può prepararlo
meglio alla visione di Dio. Dante vede sopra di lei una pioggia di gioia portata
dagli angeli creati appositamente per questo compito, e gli suscita tanta ammirazione,
che niente di ciò che aveva visto prima gli sembra così somigliante a Dio. Ed un
angelo che scende con le ali aperte canta per lei: "Ave, Maria, gratia plena", ravvivando
la luminosità di tutti i beati, che rispondono insieme al canto solenne. Dante chiede
a Bernardo, che per lui ha sopportato di lasciare il suo seggio, chi sia l'angelo
che guarda Maria con tanta gioia da sembrare innamorato. Risponde Bernardo, il cui amore
per Maria lo rende bello quanto la stella mattutina (Venere) è illuminata dal Sole
(anche se Venere è un pianeta, all'epoca di Dante non si faceva distinzione e si pensava
che tutte le stelle riflettessero la luce del Sole),
dicendo che in quell'angelo si trova tutta la baldanza e la leggiadria possibile per angeli e uomini, come
è giusto che sia, poiché egli è l'Arcangelo Gabriele, che portando un ramo di palma
(in segno di vittoria) annunciò a Maria la gravidanza di Cristo, quando Dio si volle
caricare del nostro corpo mortale. Poi continua indicandogli altri beati importanti:
i due che sono ai lati di Maria possono essere considerati le due radici della rosa
celeste: quello che le è vicino alla sua sinistra è Adamo, padre del genere umano,
per il cui gustare il frutto proibito, la specie umana assapora tanta amarezza.
Alla destra di Maria siede Pietro, il padre della Chiesa, a cui Cristo affidò le
chiavi del paradiso; accanto a lui c'è Giovanni Evangelista, che vide (nell'Apocalisse)
tutte le persecuzioni e i travagli della Chiesa, ossia la sposa di Cristo, che egli sposò
con il suo sacrificio (la lancia e i chiodi della crocefissione); mentre accanto
ad Adamo siede Mosé, che guidò gli ebrei ancora di fede incerta, attraverso il deserto,
dove furono nutriti con la manna. Dirimpetto a Pietro siede Anna, la madre di Maria,
tanto contenta di vedere la figlia, che continua a fissarla anche mentre canta "Osanna";
di fronte ad Adamo siede Santa Lucia da Siracusa, che indusse Beatrice a soccorrere
Dante, quando questi aveva perso ogni speranza (come sappiamo dal II canto dell'Inferno).
Conclude Bernardo: "Ma poiché il tempo corre, che oltretutto, data la tua condizione
mortale, ti induce stanchezza, ci fermeremo qui, come il buon sarto che produce
una gonna considerando la quantità di panno che ha a disposizione, e innalzeremo
gli occhi a Dio, così che tu possa penetrare con la vista nel suo fulgore per quanto
ti è possibile. Ma perché tu non corra il rischio di arretrare, credendo di avanzare
con le tue deboli forze, è necessario pregare per la grazia, chiedendola a colei
che può aiutarti (Maria); e tu mi seguirai con la tua devozione, così che non separi
il tuo cuore dalle mie parole". E Bernardo inizia la "santa orazione" che apre il prossimo
canto, mentre Dante termina questo canto con i due punti che impongono un silenzio
carico di una attesa solenne.
Canto XXXIII
-
Visualizza il commento
|
Nascondi
Il celebre XXXIII canto del Paradiso si apre con la celeberrima invocazione a Maria
di San Bernardo, e poi si conclude con la descrizione della visione di Dio, dove
lo sforzo di Dante di raccontarci "l'indescrivibile" assume una grandezza epica. La
preghiera di Bernardo si apre con le tre antitesi: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura...."
dove si riecheggia il "Magnificat..."
del Vangelo di Luca (1, 46), e dove in "creatura" si comprendono anche le creature
angeliche. Maria è destinata "ab aeterno" da Dio ad essere la madre di Gesù, nobilitando
la natura umana al punto che il suo creatore non disdegnò di essere da essa generata.
Con il suo concepimento si riaccese l'amore tra Dio e gli uomini, in conseguenza
del quale questa rosa celeste del Paradiso ha potuto popolarsi. Maria è esempio
luminoso, fiaccola ardente di carità per tutti i beati, e giù sulla terra inesauribile
fonte di speranza. Tale è il suo valore, che chi vuole grazia e non ricorre a lei,
è come se volesse volare senza ali. La sua bontà è tale che non solo soccorre chiunque
lo domanda, ma a volte previene spontaneamente la richiesta, come proprio per Dante ha mobilitato prima
Santa Lucia e poi Beatrice, come ci ha raccontato Virgilio
nel secondo canto dell'Inferno. Lei rappresenta la massima espressione possibile
di misericordia, pietà, magnificenza (che va intesa come "larghezza di donare senza
essere richiesti"), tutto ciò che esiste di buono in tutte le creature. Poi Bernardo
indica Dante, che ha veduto tutte le anime dal più profondo dell'Inferno fino all'Empireo,
e chiede che egli abbia la possibilità di elevare lo sguardo in alto fino a Dio.
Bernardo, conformemente alla migliore carità cristiana, desidera che Dante possa
vedere Dio più di quanto egli non abbia mai desiderato per sé stesso, e prega che le
sue preghiere siano sufficienti, perché Maria dissolva ogni impedimento in modo
che Dio possa manifestarsi a lui senza ostacoli. Aggiunge infine la preghiera che
lei possa aiutare Dante a mantenere pure le proprie inclinazioni dopo una tale visione,
ossia che egli possa poi perseverare nella virtù fino alla morte, e di mantenerne
equilibrata la ragione, dopo una tale esperienza di "excessus mentis", da cui i
mistici medioevali come lo stesso San Bernardo erano colti nelle loro estasi. La
custodia della Vergine possa essere da freno alle sue passioni umane. Beatrice (presente nel canto con
questa breve citazione come una "partecipazione speciale") e tutti i beati pregano
la Vergine insieme a Bernardo. La Vergine mostra il suo assenso semplicemente muovendo
gli occhi da Bernardo a Dio. Dante si strugge al cumine del suo desiderio.
Bernardo gli accenna sorridendo di guardare in alto, ma Dante, ormai completamente
maturo, già da solo ha alzato gli occhi e, secondo la concezione medioevale dell'ottica,
inoltra il suo sguardo dentro la luce di Dio. Ciò che vede è maggiore di quanto
può essere raccontato o ricordato, come chi si sveglia dopo un sogno, senza ricordare
il soggetto, ma con lo stato d'animo turbato da ciò che ha provato, e così lui,
anche senza ricordare la sua visione, sente ancora la dolcezza che gli ha fatto
provare. Così scompare la neve al sole, così venivano dispersi al vento, come Virgilio
racconta nell'Eneide, le sentenze che la Sibilla cumana scriveva sulle foglie.
Dante invoca Dio di fargli grazia di ricordare qualcosa di ciò che ha provato, in
modo che possa descrivere almeno una favilla della sua gloria, per renderne un'idea
a noi, lettori futuri della sua opera: da questa lontana risonanza potremo concepire
la sua infinita potenza. Dante, colpito dalla viva luce, si sarebbe smarrito se
avesse distolto lo sguardo, perché lo stesso raggio divino dava la forza ai suoi
occhi per continuare ad inoltrarsi, e per questo persevera fino a cogliere l'essenza
divina. Ed esclama: "Oh, abbondante grazia di Dio, per cui ho potuto osare di
esaurire in te tutta la mia capacità visiva!". La prima visione è quella dell'unità di
tutte le cose in Dio: nel suo profondo è contenuto insieme, con amore, ciò che è
sparso in tutto l'universo: "sustanze" (ciò che esiste per sé stesso) e " accidenti"
(ciò che esiste in dipendenza dalle "sustanze") e tutti i rapporti che tra loro
intercorrono, uniti insieme in modo tale che egli può darci solo una pallida
idea. Ma è certo di questa visione, perché sente dilagare in lui la sua dolcezza quando ce la riferisce.
Un solo attimo di tale visione è soggetto ad un oblio maggiore
di quanto siano stati venticinque secoli all'impresa degli Argonauti, che sorpresero
il dio Nettuno, quando egli vide dal fondo del mare passare l'ombra della loro nave
Argo, la prima nave mai costruita, e quindi simbolo dell'inizio del progresso umano
(datato nel medioevo nel 1223 a.C.). Con lo stesso stupore, Dante più guarda e più desidera guardare:
la vista di Dio è tale che non è possibile distogliere lo sguardo, perché in esso
si raccoglie tutto il bene, che è l'oggetto ultimo della volontà. Ma la sua lingua ora
sarà più limitata di quella di un neonato, non perché Dio, che è eternamente perfetto,
muti il suo aspetto, ma perché la sua vista, diventando più acuta, riusciva a distinguere
meglio ciò che vedeva, che per questo sembrava trasformarsi. La seconda visione è quella del
mistero della trinità: nella profondità di quella luce appaiono a Dante tre cerchi
(o meglio, tre sfere), dello stesso raggio e di tre colori diversi. Il primo rappresenta
il Padre, il secondo, che pare riflesso dal primo come un arcobaleno da un arcobaleno,
rappresenta il Figlio, il terzo, che sembra un fuoco che spira dall'uno all'altro,
rappresenta lo Spirito Santo. Ma quanto ci dice non è abbastanza per chiamarsi "poco".
Invoca Dio per l'ultima volta: "Oh luce eterna che trovi fondamento in te sola,
da sola ti comprendi, e comprendendo tutto, ami e sei benevola verso
tutto!". Poi
riprende: all'interno della seconda sfera (il Figlio) che sembrava di luce riflessa,
gli appare la nostra effige umana, dipinta con lo stesso
colore della sfera, e la fissa con attenzione. Come lo studioso di geometria tenta
invano di "quadrare il cerchio", costruendo con riga e compasso un quadrato della
stessa area di un cerchio dato (problema all'epoca già ritenuto insolubile, ma non
ancora dimostrato impossibile), e non riesce ad ottenere ciò di cui ha bisogno ("indige"),
così Dante cerca di capire come possa l'immagine umana essere adattata all'interno
di quella sfera, anche se la forza del suo intelletto non è adeguata. Ma per un attimo,
la grazia divina gli concede l'illuminazione suprema, e Dante finalmente comprende
come egli stesso, così come ogni uomo, sia compreso all'interno dell'essenza
divina. L'illuminazione della comprensione viene concessa dalla grazia Dio quando
la capacità della ragione raggiunge il suo limite estremo. Questa illuminazione
è il fine ultimo di tutta la Divina Commedia. Dopo questo attimo così intenso, alla
capacità immaginativa del poeta iniziano a mancare le forze, e con lo stesso movimento uniforme
ed armonico di una ruota che gira, il desiderio e la volontà di Dante sono dolcemente
distolti da Dio, "l'Amor che move il sole e l'altre stelle".
Questa licenza Creative Commons tutela i miei diritti d'autore ma permette a tutti di copiare e distribuire l'opera purché me ne attribuiscano la paternità
L'opera non può essere usata per scopi commerciali
L'opera può essere modificata fintanto che gli altri condividono allo stesso modo
Per ottenere permessi particolari, richiedere usando il form alla pagina dei commenti.
Lettura integrale della Divina Commedia
di Iacopo Vettori
è rilasciata con una Licenza Creative Commons - Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo - 3.0 - Non importata.
Basato su un'opera a www.iacopovettori.it.
Permessi non previsti da questa licenza possono essere richiesti a http://www.iacopovettori.it/commento/Default.aspx.